Stringere in una metafora di ampio respiro narrativo le questioni emotivamente più dolenti – non fatti privati, ma emergenze sociali di portata per nulla contingente – sembra essere la costante dei romanzi di Kazuo Ishiguro, ieri premiato con un meritatissimo Nobel, che guarda alla sua «scoperta dell’abisso sottostante il nostro illusorio senso di connessione con il mondo», e – al tempo stesso – porta all’evidenza la smagliante scrittura dell’autore inglese, l’eleganza della sua prosa, il virtuosismo delle sue digressioni, a volte capaci di ospitare enfatiche amplificazioni di piccoli gesti quotidiani – umili rituali come quelli di un maggiordomo in Quel che resta del giorno o di un facchino in Gli inconsolabili.

A DIMOSTRAZIONE di quanto meditate siano le urgenze narrative di Ishiguro basterebbero i dieci anni trascorsi tra il suo ultimo romanzo, Il gigante sepolto, e quello precedente, Non lasciarmi (come tutti pubblicati da Einaudi, nelle splendide traduzioni di Susanna Basso), entrambi proiettati in una apparente fuga temporale – nel passato il primo e nel futuro il secondo – sebbene riguardino, di fatto, il nostro presente, ancorché sotto mentite spoglie.
Ambientato negli anni Novanta, Non lasciarmi ruota intorno alle vicende di tre giovani – Kathy (voce narrante), Tommy e Ruth – che, allevati in un collegio immerso nella campagna inglese, sono in realtà cloni, la cui funzione di donatori di organi li assegna a una fine precoce e, almeno entro certi limiti, rassegnata. Lo stesso autore chiarì che l’idea di mettere in scena dei cloni gli avrebbe consentito di affrontare in un modo inusuale alcune storiche questioni che affollano molti tra i testi letterari a lui più cari: cosa è un essere umano, se esista l’anima, quale sia lo scopo della nostra vita, domande che suonano familiari nei grandi romanzi russi ma per le quali Ishiguro lamentava la mancanza di un lessico intonato alla sua generazione. E fu così che diede forma a quella realtà parallela incarnata dai cloni.

AL POLO OPPOSTO del tempo, una fiaba sospesa nelle nebbie medievali dell’Inghilterra ancora divisa tra Bretoni e Sassoni: Il gigante sepolto, uscito nel 2015, affronta una domanda cruciale come lo sono le domande senza tempo, ossia se la lucidità dei ricordi sia sempre auspicabile o se non sia a volte più proficuo varcare la soglia dell’oblio, dove insieme ai fatti si allontana anche il risentimento che spesso li accompagna.

L’epoca del romanzo, quasi un fantasy, è di poco posteriore alla morte del leggendario re Artù: la pace regna ora tra i popoli immemori delle ragioni che li avevano portati a odiarsi, così come emancipati del loro passato sono tutti gli uomini e le donne della contrada, avvolti dal fiato della femmina di un drago, che ha ricoperto di impenetrabili velature i loro ricordi. Protagonisti, due poverissimi vecchi uniti da un amore incrollabile, che decidono un giorno di intraprendere – in quella terra popolata di orchi, folletti e creature sinistre – un viaggio per ricongiugersi al figlio, che forse li aspetta in un altro villaggio.

Molte diverse figure si materializzano sul fondale dove si muovono i due vecchi, finché nel corso del viaggio il drago verrà raggiunto, stanato e ucciso, mettendo fine all’incantesimo che avvolgeva la memoria di Sassoni e Britanni, ora dunque di nuovo nemici.
Ishiguro raccontò nel nostro incontro più recente a Mantova – era il settembre del 2015 – di avere scritto il romanzo «pensando a quanto è successo in Bosnia e in Ruanda negli anni Novanta: proprio ricordando queste popolazioni che vivevano in una pace evidentemente fittizia, e che quasi all’improvviso si sono ritrovate al centro di tremendi conflitti, ho messo in scena la convivenza precaria di Bretoni e Sassoni. Il mio – chiarì – è un tentativo di defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali siamo tanto abituati da non accorgecene più».

NON ERA LA PRIMA volta, del resto, che Ishiguro metteva i suoi personaggi nelle condizioni di perdere la memoria: accade a Ryder, il protagonista degli Inconsolabili, un romanzo datato 1995, e anche al narratore di «A village after the dark», il racconto che pubblicò nel 2001 sul New Yorker, a dimostrazione di quanto questo assillo sia presente da sempre nella coscienza dell’autore inglese, che fin dai suoi esordi si è concentrato sulle strategie adottate da tutti noi per venire a patti con la nostra memoria, facendone una chiave per aprire mondi interni e insospettabili.
«Sia in Un artista del mondo effimero che in Quel che resta del giorno – ha detto – analizzavo il modo in cui anche la persona più idealista, anche chi è dotato delle migliori intenzioni può a volte contribuire, senza rendersene conto, a azioni nefaste; e da qui sono passato a tentare di capire quanto sia difficile distinguere una buona causa da una che non lo è».

SONO QUESTIONI che rimandano, in fondo, alla evoluzione di un altro tema ricorrente soprattutto nei primi tre romanzi di Ishiguro – Un pallido orizzonte di colline del 1982, Un artista del mondo effimero, del 1986 e Quel che resta del giorno, del 1989 – quando la preoccupazione principale sembrava essere quella di come mettere in scena personaggi alle prese con i loro errori: ciò che all’autore interessava era non tanto il tipo di sbagli commessi, ma il processo di riconoscimento dell’errore, l’approdo alla consapevolezza: «è molto stimolante – disse al tempo della pubblicazione degli Inconsolabili – indagare l’inganno che spesso si vuole perpetrare nei confronti della realtà che ci circonda. Simpatizzo con coloro che sentono l’esigenza di mentire a se stessi per riuscire a sopportare l’insopportabile: se si dovesse ammettere che la propria esistenza è stata sprecata, verrebbe a mancare il coraggio di andare avanti. Ma ciò che più mi interessa è il conflitto intrinseco a due aspetti del carattere: quello che porta a volere riconoscere i propri errori e l’altro che fa desiderare di continuare a nasconderli».

Ambientato in una piccola città dell’Europa centrale, una città senza nome, Gli inconsolabili ruota intorno alla riabilitazione di un vecchio direttore d’orchestra, da tempo dedito a dissipare nell’alcol il suo talento. L’uomo verà guidato a una difficile redenzione dalle cure ossessive e un po’ sinistre di un maître d’albergo, responsabile dell’organizzazione di un grande concerto ai cui preparativi partecipa, in commossa fibrillazione, l’intera cittadina; perché su quel proscenio si giocherà, insieme al climax affidato al successo del direttore d’orchestra, la riconquista collettiva della felicità perduta.

SE I PRIMI ROMANZI di Ishiguro rivelano ancora – nella tradizione incarnata dagli scrittori vittoriani – la priorità dell’investimento sulla trama e sugli eventuali colpi di scena, una maggiore sicurezza ha reso via via più lento l’incedere della sua scrittura, aperta a magnifiche digressioni. Anche l’ironia, spesso portata agli estremi della comicità, fa parte dei registri di Ishiguro: «Credo che derivi soprattutto dalla distanza che metto tra me e le mie voci narranti, le quali solo fino a un certo punto sanno cosa stanno dicendo. In un certo senso, tra il lettore e l’autore c’è una intesa tale per cui sono entrambi a conoscenza di qualcosa di più di quanto sa il narratore. Quel che tento di fare è conferire a determinate scene una tonalità da commedia».

E tuttavia, quel distacco emozionale che è imperativo nella traslazione romanzesca dei fatti della vita di ogni scrittore, lascia intravedere una malinconia che Ishiguro non rinnega, e anzi interpreta stringendola in una frase seminata tra le pagine di Quando eravamo orfani, il suo quinto romanzo, uscito nell’anno 2000: «Quando cresciamo, la nostra infanzia si trasforma in una terra straniera». Nessun riferimento all’approdo inglese dal Giappone dove era nato, piuttosto la nostalgia «di una infanzia protetta, di una cospirazione finalizzata a far credere ai bambini che il mondo sia un luogo molto bello. Chi ha avuto l’opportunità di vivere in questa specie di bolla di felicità, ed è stato poi costretto più o meno bruscamente a uscirne, conserva il rimpianto per quella bugia gentile».

ISHIGURO PARLAVA del suo romanzo, ma più in generale delle proprie convinzioni: era seduto su un divano appoggiato alle pareti spoglie dell’Hempel Hotel di Londra, il cui ingresso esibiva una aiuola con quarantanove orchidee bianche (sette volte sette, il numero eletto della filosofia Feng Shui), dove ci incontrammo nel settembre del 2000. Quando eravamo orfani era appena uscito e riproponeva la ricapitolazione di una vita, insieme al rimpianto di non potere recuperare quel che il tempo ha portato via con sé. Voce narrante, un grande detective inglese di nome Christopher Banks, che rievoca la sua infanzia a Shanghai, quando con i genitori e l’amico giapponese Akira consumava l’idillio dei suoi anni migliori. Intanto, fuori dai lussuosi confini della Concessione Internazionale, nei quartieri cinesi, ogni giorno migliaia di nuovi adepti venivano guadagnati alla causa dell’oppio: tossicodipendenza, miseria e degrado crescevano insieme agli enormi profitti derivati dalle importazioni dall’India, di cui erano responsabili svariate compagnie internazionali, non ultima quella alle cui dipendenze lavorava il padre di Christopher.

Poi, una precipitazione della trama fa sì che il romanzo si trasformi nel più convenzionale fra quelli concepiti da Ishiguro, dove le svolte dell’intreccio hanno un ruolo cruciale. «In un certo senso – spiegò – ho pensato che una cornice tradizionale mi avrebbe dato modo di prendermi licenze maggiori, di introdurre delle stranezze».
Nelle critiche che sono state rivolte ai libri dello scrittore ieri premiato con il Nobel, si è citata spesso quella che è invece, patentemente, una qualità: il fatto che la sua sia una prosa molto controllata, dove emozioni fin troppo sorvegliate filtrano in uno stile impeccabilmente privo di increspature, di «sporcature» lessicali. Ishiguro riconduce queste peculiarità della sua scrittura al fatto che entrambe le culture nelle quali è cresciuto, quella giapponese e quella inglese, tendono a privilegiare il contenimento delle emozioni.

FORSE ANCHE QUESTA amministrazione vigile delle sue urgenze psichiche ha contribuito a permettergli, nell’età del narcisimo, dieci anni di assenza dalle scene della letteratura, prima che si ripresentasse, nel 2015, con un romanzo completamente diverso da tutti i suoi precedenti: straniante, per certi versi remoto come una fiaba, e tuttavia ancora una volta abilmente allusivo dei nostri dubbi privati e dei drammi di intere popolazioni in guerra.