Nei suoi ultimi giorni di vita, allettato, Carlo Emilio Gadda si faceva leggere dagli amici i Promessi sposi. Nel romanzo l’Ingegnere trovava la rappresentazione più compiuta di un’intera civiltà, delle sue miserie, delle sue bassezze e dei tormenti che accompagnano l’esistenza, «disorganica e priva di fini».
Si può quasi tracciare una triangolazione geografica, oltre che letteraria e figurativa, nella quale si è continuato a trovare nel capolavoro manzoniano, nel suo racconto della Lombardia spagnola, nella sua lingua, un conforto. La consolazione per un’umanità preda del caso, macilenta e disgraziata, che vivendo e, soprattutto, morendo – di fame, di stenti, di guerra, di malattia –, ha definito il destino e il nome di certi luoghi, depositati nella memoria collettiva e nel romanzo come per un atto di pietà universale.
Alcuni di questi si attraversano ne La Milano dei Navigli Passeggiata letteraria (pp. 94, euro 14,00), un saggio di Dante Isella (1922-2007) apparso per la prima volta nel 1987 e ripubblicato ora (con prefazione di Giovanni Agosti e con una bellissima scelta di immagini) da Officina Libraria. Qui Isella cuce i ricordi figurativi con le testimonianze letterarie e le informazioni storiche, in una «miscela di erudizione e sentimento». Attraverso le memorie e le reliquie di questa città acquatica perduta per sempre ci si fa largo nei luoghi di Porta, di Cattaneo, nella Milano di Manzoni e infine di Tessa, dove «rong e semineri, / navili e cimiteri / suden adasi, adasi, / umed e nebbia».
Per i nipoti e i pronipoti di Manzoni, i nipoti di Gadda, nei chilometri che separano Varese da Milano, Milano da Lecco, lungo il corso dell’Adda poi del naviglio della Martesana, passa la «cruna d’ago della propria identità storica e culturale». È stato proprio Isella, filologo, critico e storico della letteratura, a ricostruire la mappatura di questa tradizione letteraria, codificandone di volta in volta i caratteri distintivi. Tra le tante edizioni critiche curate da lui vi sono la difficile rilettura dei Rabisch di Lomazzo, Il teatro e Le rime di Maggi, Il Giorno di Parini, le Note azzurre di Dossi, le poesie di Porta, la sistemazione dei Promessi Sposi, l’intera opera di Gadda e i Mottetti di Montale. Tutto svolto con un metodo che è andato perfezionando quello del maestro che più di tutti ne ha definito la vita e la carriera, Gianfranco Contini. Una dedizione che inizia quando Isella, internato militare a Friburgo tra ’44 e ’45, segue le lezioni universitarie del filologo di Domodossola. In quegli insegnamenti trova «la ragione fondata di un’esistenza non indegna», la convinzione di poter dare al proprio futuro intellettuale «una concretezza che reggesse il difficile confronto con quella che tanto ammiravo in mio padre, nel suo duro lavoro di self-made man» (sto stralciando dalle memorie postume: Un anno degno di essere vissuto, Adelphi 2009). La «concretezza» è un’esigenza irrinunciabile. Così, «la vertiginosa ginnastica di logica applicata ai problemi testuali» poteva in qualche modo corrispondere – un parallelo che viene da Contini – alla «misurazione serrata dello ‘spazio’ storico» attuata, in campo figurativo, da Roberto Longhi. O, ancora, con la demolizione longhiana del capolavoro ‘assoluto’: «l’opera non sta mai sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte» – per citare uno dei brani più noti delle Proposte per una critica d’arte. Il passo successivo, naturale, è appunto la ricerca che spiega il testo (sia una poesia, un quadro, un romanzo) come il prodotto delle variazioni del pensiero introdotte sul corpo dell’opera in lavorazione. Dei mutamenti, per quanto riguarda gli scritti, rappresentati con dei criteri ecdotici collaudati con l’esperienza. In questo modo la filologia d’autore è andata definendosi come un settore specifico della disciplina, giungendo a decisivi risultati critici. Più in generale, rendere scoperte queste modifiche significa chiarire i presupposti, le conseguenze, perciò il senso: non ci può quindi essere filologia senza critica, e viceversa.
Forse – forse ingenuamente –, si può pensare che i risvolti più pragmatici di questo lavoro filologico siano un portato culturale, oltre che caratteriale, di un uomo nato nel 1922 a Varese, ai piedi del Sacro Monte dal quale si vede, quando è sereno, quando l’aria è più secca, tutta la Lombardia?
Per ricordare Isella a dieci anni dalla morte c’è stata una piccola esposizione, chiusa da poco, a Villa Panza a Varese, a cura di Giovanni Agosti e Anna Bernardini: «un ricordo e un omaggio» del FAI e del Comune di Varese. C’erano i quadri acquistati, quelli guardati come sollievo, quelli amati, altri utilizzati come strumenti di un processo di approssimazione a una ricostruzione storica; tutti sono testimonianze di rapporti umani: con Giovanni Testori, l’amico antiquario Alessandro Orsi, Renato Guttuso, eccetera. C’erano le riviste, i libri e le fotografie dove, di nuovo, come nella vita di tutti i giorni, passioni, famiglia, lavoro e amicizie si intrecciano.
I rapporti umani stanno a monte anche delle pagine di critica d’arte di Isella raccolte da Archinto in Amici pittori (pp. 193, euro 15,00). Per l’accostamento del filologo all’arte contemporanea è stato decisivo, lo racconta lui stesso, il legame con Antonio Cederna. Cominciavano così, negli anni della guerra, tra un allarme aereo e l’altro, le scoperte gioiose dei pittori di «Corrente», delle tele di Italo Valenti legate, per Isella, a «una Milano tra penombre di cantine e di botti, in un’aria di non scancellata scapigliatura»; una città «vitalmente positiva, legata al suo passato dialettale e insieme europeo, aperta alle grandi idee… La Milano di Tessa, la stessa dei disegni dell’Adalgisa di Gadda, della sculture di Broggini».
Negli anni subito successivi alla guerra l’attenzione di Isella, e non solo, è attirata dalle mostre a Villa Mirabello: dalle colline dell’Insubria si cercava, aggiornandosi sulle esperienze artistiche internazionali, di superare i traumi del conflitto e del fascismo. Poi la riscoperta della pittura seicentesca – e del Seicento lombardo in primis –, di nuovo con in testa le rivelazioni di Longhi e nella memoria (e nel cuore) le pagine di Manzoni. I rapporti successivi con Mario Negri, Morlotti, Guttuso, Francese e gli altri amici pittori hanno continuato a essere funzionali all’indagine del processo creativo, con un gusto appena trattenuto al di qua della soglia dell’informale perché, come dirà di Morlotti, il mondo come rappresentazione resta, per un lombardo, un’esigenza irrinunciabile.
In Amici pittori mancano, purtroppo, le immagini delle opere. Ne sarebbero bastate alcune tra le più significative – per fortuna si trovano, senza troppa fatica, su internet. Come il pastello di Morlotti che, appeso nello studio, era «un appoggio fiducioso», un prolungamento del colloquio con l’amico; o il Tramonto sul lago di Varese realizzato da Guttuso a Velate, poco distante dalla casa degli Isella di Casciago, nell’estate del ’58: per il pittore siciliano un tentativo di comprensione del paesaggio lombardo attraverso l’amalgama di una materia pittorica che sembra impastata con la stessa umidità, con le muffe, con i verdi che si trovano sulle colline varesine o lungo le sponde dell’Adda, nell’Imbersago di Morlotti.
Uno strumento utile per ripercorrere la carriera del filologo è la Bibliografia degli scritti, a cura di Pietro De Marchi e Guido Pedrojetta (Edizioni del Galluzzo, pp. 90, euro 26,00). Un altro dei recenti omaggi legati al decennale. Si ritrovano la testimonianze di una vita operosissima, di un’attenzione singolare provocata da testi ardui che Isella rileggeva con metodo rigoroso, sbrogliando le matasse della lingua, spesso del dialetto, attraverso gli apparati, e sviscerando il senso storico-critico delle opere in esame nei saggi introduttivi. Scorrendola in queste pagine, l’attività del filologo varesino non si definisce in una forma, ma in una ricerca che, «risalendo e scendendo per li rami», ha generosamente illuminato le strade più impervie di un’intera tradizione. È, in sostanza, un grande monumento civile messo su per le generazioni successive. Tra gli ultimi titoli della Bibliografia spicca l’edizione critica del Fermo e Lucia, diretta da Isella, curata da Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni. È pubblicata pochi mesi prima della scomparsa, come il coronamento di un lunga gestazione, come un congedo.