In piena «seconda ondata» del Covid, mentre il lavoro autonomo è stato travolto dalla crisi innescata dal contenimento del virus, è stato presentato come una «cassa integrazione per le partite Iva» in realtà è uno dei tanti bonus erogati dal governo Conte bis e, al momento, confermato da quello successivo di Draghi. Si chiama «Iscro», un brutto acronimo che significa «indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa» ed è contestato dalle associazioni delle Guide turistiche (Agta), traduttori (TradInfo), archivisti (Archim), illustratori (Associazione autori di immagini), lavoratori dell’arte (Artworkers) che hanno aderito alla campagna dell’associazione dei freelance Acta «#RidateciLaTorta». Il sussidio è stato presentato dalla politica, anche dell’allora opposizione ora al governo, come il primo passo di una politica dei «due tempi». Il secondo tempo dovrebbe coincidere con una riforma «universalistica» degli ammortizzatori sociali, anche per i lavoratori autonomi, sulla quale si sta dedicando il ministro del lavoro Andrea Orlando che ha convocato un tavolo dedicato al tema. Per il momento, l’Iscro corre il rischio di restare un tentativo, poco meno che simbolico, parte di un Welfare a compartimenti stagni, una caratteristica italiana che diventa paradossale nel caso del «lavoro autonomo di seconda e terza generzione» che opera nei servizi all’impresa, al pubblico e al privato sociale, nei media e nella cultura, del software o del design.

L’Iscro riguarderà pochissime partite Iva che hanno guadagnato un reddito non superiore a 8.145 euro nell’anno del Covid; hanno registrato un calo del reddito di almeno il 50% rispetto alla media del triennio precedente; non hanno cessato l’attività e sono iscritte alla Gestione Separata dell’Inps da 4 anni. Così facendo, in un colpo solo, sono escluse le (relativamente) giovani partite Iva, coloro che hanno guadagnato un centesimo in più del reddito stabilito. Il reddito medio degli iscritti alla Gestione separata dell’Inps è di poco superiore ai 15 mila euro annui, una cifra da lavoratori poveri che però non avranno accesso al sussidio previsto. In più restano esclusi i professionisti ordinisti, i non ordinisti iscritti ad altre gestioni Inps. Senza contare chi lavora con la ritenuta d’acconto e con un contratto precario, a cominciare dai lavoratori dello spettacolo che si sono mobilitati negli ultimi giorni, e destinatari di «bonus» inadeguati e estemporanei. «È un contentino, più simbolico che reale, per dimostrare di aver fatto qualcosa, non per costruire un efficace sistema di ammortizzatori sociali per chi è escluso da quello attualmente esistente» commentano gli attivisti di Acta.

Ma oltre la beffa, c’è il danno. L’Iscro aspirerebbe ad essere una specie di «politica attiva del lavoro». Il suo riconoscimento dipende dall’obbligo della partite Iva a partecipare alla formazione. Il meccanismo è lo stesso di quello previsto per i beneficiari del cosiddetto «reddito di cittadinanza», in realtà un «workfare» basato sullo sfruttamento del lavoro gratuito fino a 16 ore a settimana e sui fondi concessi dallo Stato alle agenzie di formazione. Non è chiaro se tale «formazione» serva a partite Iva che, in realtà, cercherebbero nuovi committenti. Per finanziare tale sistema il governo Conte Bis ha aumentato i contributi previdenziali dello 0,72% agli iscritti alla gestione separata senza, per altro, godere pienamente dell’assistenza per cui già pagano. «Con l’Iscro – sostiene Acta – non si è colta l’occasione di varare una riforma del Welfare che superasse le distinzioni contrattuali e le divisioni di casse previdenziali e includesse anche i lavoratori non subordinati che non sono assicurati da nessuna cassa».