Programmare (un festival) è un’arte, un gioco di sapienza quasi alchemica tra equilibri assai complessi che Edouard Waintrop, il delegato artistico della sessantottina Quinzaine des Realisateurs dimostra di padroneggiare con sicurezza. E se Frémaux ha sbagliato l’apertura – non perché Les fantomes d’Ismael di Desplechin sia un brutto film ma non ha certo l’impatto di un La La Land, e gettare la sua fragilità intima davanti a una platea internazionale che poco conosce il cineasta francese equivale a abbatterlo – Waintrop ha colto nel segno puntando anche lui su un regista francese, anzi una regista, in stato di grazia come è Claire Denis nel suo nuovo, e sorprendente rispetto alla filmografia della cineasta, Un beau soleil interieur, commedia modulata con (auto)ironia sulle possibili variazioni del sentimento e della seduzione «al lavoro». Al centro, c’è una donna, Isabelle, la quale crede che la sua vita amorosa si è ormai spenta per sempre, nonostante la presenza fluttuante nelle sue giornate di molti uomini, ciascuno incastonato in una porzione di nevrosi.

Isabelle è un’artista, «dipinge, danza, piange, scopa», ha una figlia di dieci anni, un ex-marito col quale finisce a letto di tanto in tanto per cacciarlo poi per un gesto sbagliato, un giovane amore che fugge dopo il sesso perché «abbiamo rovinato tutto facendolo», un banchiere tronfio che la insegue con arroganza messo alla porta con decisione, un nuovo amore (forse) prudente. Ma; «sia open» le suggerisce il veggente psicanalista Gerard Depardieu perché solo così raggiungerà un «Bel sole interiore». Denis per la scrittura si è ispirata ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, testo quasi leggendario nella sua analisi dei movimenti sentimentali tra affermazioni categoriche e arbitrarietà, attenzione ai dettagli insignificanti, almeno nell’apparenza: si ama e al’improvviso non si ama più…

E del testo di Barthes, progressivamente distanziato – come ha spiegato la stessa regista – nella scrittura (insieme a Christine Angot) questa frammentarietà rimane nella ricerca del grande amore di Isabelle, a cui dà vita Juliette Binoche, che da tempo non capitava di vedere così libera, piena, magnifica complice della macchina da presa davanti alla quale, spogliandosi di ogni retorica recitativa, attraversa tutti i passaggi sentimentali di questa donna. Ostinazione, spavento, capricci, impennate del desiderio, segreti anche inconfessabili sin dalla prima inquadratura che ce la mostra a letto con l’arrogante banchiere (Xavier Beauvois) – .

«Non sono tipo da un’avventura di una sera, mi innamoro sempre» dice Isabelle all’amico che la corteggia per andare via poco dopo con un tizio appena incontrato. Uno con cui non ha niente in comune, non condividono gli amici, l’ambiente, e all’improvviso l’idea la spaventa al punto di rompere con determinazione. Impulso? O troppe parole? Nel desiderio Denis si è avventurata da sempre, in ogni suo film, attrazioni diverse, rischiose, a volte distruttive. Ma qui la variazione la porta ancora più avanti: com dare un’immagine a questo desiderio, ai molti desideri anzi, alle pulsioni segrete senza precipitare nella parola, nella trama del racconto, con la leggerezza di una risata? E senza temere il grottesco, l’assurdo, l’enfasi surreale disseminata nelle avventure di questa donna, che la regista controlla con la sua passione di filmare. Capita raramente di saperlo raccontare con questa spudoratezza, di stile, di gioco, di corpi – degli attori – senza temere di dare voce anche ai pensieri più intimi – per godere con lui dirà all’amica Isabelle parlando del banchiere pensavo che era un «porco»- senza rientrare nei generi tradizionali del racconto.

E Ssoprattutto capita raramente di vedere sullo schermo un personaggio femminile impudente di riso e di pianto che non è una ragazzetta nevrotica ma una donna che sfida anche lei le «regole» dell’età con delle minigonne meravigliose e il piacere di mostrare il corpo senza interrogarsi su questo troppo. È l’amore per il cinema, gli attori, i personaggi sempre più raro, un vero piacere.