Pietra dei muri e ferro dei balconi, le case di Valsinni salgono verso il castello come in una processione immobile da secoli. Le vie, sovrapposte l’una all’altra, si possono percorrere soltanto a patto di affrontare scalinate interminabili. Valsinni, dopo che hai lasciato alle spalle la chiesa dalla facciata rugosa su cui si spalma il sole del tramonto, mostra dall’alto il disegno di un paesino, poco più di mille abitanti, provincia di Matera, ennesima briciola sparsa sulla terra di Basilicata. Fino alla seconda metà dell’800 il suo nome era Favale, “Terra generosa di sorgenti” in greco antico. Da sempre la sua acqua dolce è quella del fiume Sinni. Il mare salato è sul filo dell’orizzonte. Non ha nulla di speciale Valsinni, se non il fascino del tempo fermo, inossidabile ai cartelli stradali, all’asfalto dei viadotti che scorrono in basso, alle insegne commerciali dalla grafica disordinata, alle auto parcheggiate nei pochi spiazzi disponibili. Non ha nulla di speciale, eppure riesce a insinuarti il dubbio che andartene via troppo in fretta significherebbe, forse, lasciare qualcosa in sospeso; qualcosa di cui potresti venire a conoscenza, con rimpianto, quando ormai sei già troppo lontano. Ed è così. Te ne accorgi arrivando sotto la mole della rocca, davanti al cartello che porta il simbolo del circuito dei Parchi Letterari italiani, cui il maniero di Isabella Morra appartiene. Colpevolmente distratto, quel nome e cognome li avevi già letti sotto un monumento del paese, senza darvi troppo peso. Su un piedestallo di marmo bianco, la figura di una giovane donna assorta nella lettura di un libro, i capelli raccolti intorno alla testa e mossi da riccioli. Un’altra giovane donna, ma in carne e ossa, accoglie i visitatori del castello. Isabella è la protagonista delle sue spiegazioni, che rifuggono dalle filastrocche imparate a memoria per i turisti, e al contrario sprizzano amore e passione ad ogni parola.

Così comprendi che Valsinni e Isabella, da mezzo millennio, sono una cosa sola; luogo e protagonista di una vicenda intrisa di sangue e di versi poetici, dramma di una libertà impossibile e di un sentimento mortificato, di un delitto d’onore e della sua eterna assurdità. Raccontare Valsinni e Isabella può essere, allora, un piccolo contributo per portare alla luce, tanto più di questi tempi, il destino tragico di una creatura reclusa, e uccisa perché ritenuta colpevole secondo il metro e il giudizio maschile.

Favale era feudo dei Morra già in epoca normanna. Isabella nasce da Giovanni Michele e Luisa Brancaccio intorno al 1520, secondo gli studi di Benedetto Croce, venuto in Basilicata per dare alla storia contorni e verità più precisi. È terzogenita di otto figli: Camillo, Cesare, Decio, Fabio, Marcantonio, Porzia e Scipione. Nell’Italia attraversata dalla guerra tra Francesco I di Francia e Carlo V di Spagna, Giovanni Michele, nel 1528, è costretto alla fuga. Scappa a Parigi con il figlio Scipione, il feudo passa alla corona iberica per poi tornare ai Morra, sotto la tutela di Marcantonio. Isabella ha otto anni, e da quel momento inizia a conoscere il sapore amaro della solitudine. Nella sua opera di poetessa, appena dieci sonetti e tre Canzoni, l’attesa vana del padre e l’eremitaggio forzato saranno temi dominanti. «D’un alto monte onde si scorge il mare/miro sovente io, figlia tua Isabella/s’alcun legno spalmato in quello appare,/che di te, padre, a me doni novella». «Ecco ch’un’altra volta, o valle inferna/o fiume alpestre, o ruinati sassi/o spirti ignudi di virtute e cassi/udrete il pianto e la mia doglia eterna». Immaginate la Basilicata cinquecento anni fa. Se ancora oggi la decisione di visitarla è foriera di stupore, «ma che ci vai a fare?», nel secolo di Isabella la regione rappresentava poco più di un’identità geografica sulle mappe. Povera e sperduta, nonostante Roma, la Grecia, Federico II avessero lasciato insediamenti e tracce a testimonianza di un passato importante, la Basilicata era avvolta dall’oblìo. «Contra Fortuna allor spargo querela/ed ho in odio il denigrato sito/come sola cagion del mio tormento». In quell’odiato sito, Favale e il castello, sui rapporti sempre più aspri con i fratelli, irrompe inaspettato un raggio di luce. Ha le sembianze di un nobiluomo spagnolo, il poeta Diego Sandoval de Castro, barone di Bollita. Recapitati tramite il precettore di Isabella e inviati a nome di Antonia Caracciolo, moglie di Don Diego, i messaggi e le lettere tra i due divengono sempre più frequenti. Mentre l’epistolario di Isabella verrà rinvenuto durante le perquisizioni nel castello seguite all’omicidio di cui racconteremo a breve, quello di Diego non sarà mai trovato. Nessuno studioso, neppure lo scrupoloso Croce, è riuscito ad appurare se si trattasse di una relazione intellettuale o di un rapporto d’amore. Ma ciò non aveva alcuna importanza per tre fratelli della disperata poetessa.

Scoperta la presunta tresca, Cesare, Decio e Fabio assassinano prima il precettore, convinti che ne fosse complice. Poi mettono fine alla vita della sorella, forse picchiandola a morte, forse pugnalandola. Infine saldano il conto a Don Diego, ucciso in un agguato nonostante avesse provveduto a tutelarsi con una scorta. Quest’ultimo delitto costringe i tre a darsi alla fuga. Storia ancora oggi valida in diverse parti del mondo, la giustizia si interessa a loro non per via di Isabella, ma del nobile spagnolo. Se la colpa dell’adulterio poteva meritare la morte, uccidere un uomo di rango superiore, pur coinvolto, costituiva reato grave. Rifugiatisi in Francia, Decio impalmò una signorina dai molti titoli, mentre Cesare scelse di indossare gli abiti religiosi. Di Fabio non si ebbero più notizie. Il valore letterario delle rime di Isabella venne riconosciuto solo a partire dagli inizi del Novecento. La sua tragica fine, infatti, aveva messo in ombra per secoli l’opera da lei lasciata. Sonetti e Canzoni, nonostante fossero stati inseriti in raccolte poetiche già a pochi anni dalla morte della poetessa, furono interpretati fino all’Ottocento in chiave di rivendicazione femminile permeata di rancore; di rabbia per un destino avverso che aveva condannato all’isolamento una donna invece ansiosa di vivere pienamente. Oggi Isabella è considerata erede del Petrarca e di Dante, da alcuni perfino musa del Leopardi che cantò la solitudine di Recanati e la crudeltà della fortuna. Lo anticipavano così, i versi di Isabella: «I fieri assalti di crudel Fortuna/scrivo piangendo la mia verde etate/me che ‘n si vili ed orride contrate/spendo il mio tempo senza loda alcuna».

Ogni castello vuole il suo fantasma, anche in quello di Valsinni se ne aggira uno. Ha le sembianze di una giovane donna morta troppo presto, colpevole soltanto di rifiutare ciò che la sua nascita e la sua famiglia le avevano imposto. Se capitasse di incontrarlo, quel fantasma metterebbe dolcezza e non paura. La sua voce delicata volerebbe sui tetti del paesino, recitando sottovoce: «Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,/vo procacciando con le Muse amate/e spero ritrovar qualche pietate/malgrado de la cieca aspra importuna/E col favor de le sacrate Dive,/se non col corpo, almen con l’alma sciolta,/esser in pregio a più felici rive/Questa spoglia, dove or mi trovo involta,/forse tale altro re nel mondo vive/che ‘n saldi marmi la terrà sepolta».