Per partecipare a Cagliari al Convegno internazionale della International Gramsci society, su «Gramsci nel mondo di oggi», e a due incontri romani su Gramsci in America Latina, Isabel Monal ha viaggiato da sola per due giorni. L’ho vista arrivare curva sui suoi 91 anni e sulla sua disastrosa colonna vertebrale che da circa quattro decenni la costringe a muoversi con una stampella. «Una condizione che mi fa sentire vicina a Gramsci» ironizza con la forza che la contraddistingue da sempre. Ho conosciuto Isabel Monal 25 anni fa, nella sua Cuba, in occasione di un insolito convegno gramsciano tenutosi nel Centro culturale Juan Marinello, sotto la sua direzione scientifica, proprio nel momento in cui a Cuba certi equilibri stavano iniziando a scricchiolare, al simbolico passaggio delle consegne del Ministero della cultura fra lo storico Armando Hart, uno dei padri fondatori della Rivoluzione, e Abel Prieto, l’uomo che poco dopo avrebbe ricevuto Giovanni Paolo II in cravatta e abito scuro. Ci siamo poi riviste in diversi altri convegni europei e sudamericani, lei sempre autorevole e ascoltatissima, portatrice di una visione del marxismo segnata dal peso del difficile incontro fra un pensiero politico europeo attraversato e in buona parte deformato dall’esperienza sovietica e le istanze di liberazione anticoloniale di matrice caraibica.

Professoressa emerita dell’Università de L’Havana, dove ha fondato e diretto a lungo l’Istituto di Filosofia, direttrice della rivista Marx ahora, componente di importanti istituzioni culturali internazionali e infaticabile autrice di libri, saggi, articoli, Isabel è un monumento vivente della Rivoluzione cubana: ora che tutti i suoi compagni sono morti, la necessità della testimonianza si è fatta ancora più urgente. Per questo motivo è impegnativo intervistarla, raccogliere il suo lungo racconto, a tratti dettagliatissimo, a tratti scarno, a seconda della direzione che la sua memoria e la sua implacabile inclinazione al comando vogliono imprimere alla narrazione. Delle mie domande quasi non tiene conto, le sue parole fluiscono come una cascata rapidissima. Isabel conosce l’italiano, ma questa storia può raccontarla solo in spagnolo, perché mentre la narra la rivive, glielo si vede nello sguardo guizzante, nei gesti vigorosi, nella voce potente.

Frammenti di vita
«Sono l’ultima di nove fratelli e sorelle di una famiglia con madre cattolica e padre patriota. Mia madre mi portava a messa, mio padre manteneva viva la speranza che Cuba si potesse liberare, anche dopo il fallito tentativo del 1933. Ho imparato da loro a riconoscere le ingiustizie, e a volerle combattere. Cuba era una colonia dell’imperialismo americano al tempo della mia infanzia».
Nel 1955 è a San Francisco con una borsa di studio per laurearsi in pedagogia e specializzarsi in scienze dell’educazione. Nel 1956, quando Fidel rientra a Cuba, Isabel è ad Harvard per studiare filosofia. Incontra così il marxismo, paradossalmente negli Stati Uniti d’America, ma resta sempre in contatto con la sua terra.

«Dovevo tornare, aiutare il mio popolo. E così, nel 1957, ho iniziato a cercare contatti con il Movimento 26 luglio, grazie ad amici e persone che clandestinamente già sostenevano il direttivo rivoluzionario. Ho iniziato a lavorare per il direttivo a Pilar del Rio. Il gruppo era già marxista, ma si richiamava pubblicamente solo a Josè Martì, e questo riferimento all’eroe dell’indipendenza cubana era molto importante per farsi comprendere e accettare dalla popolazione. Soltanto nel 1961 Fidel iniziò a richiamarsi apertamente al socialismo».

Isabel non era sola in questa impresa, ma accompagnata dalla sorella Aleida, con cui iniziò a condividere prima incarichi secondari, come fingersi fidanzate a passeggio con compagni che in realtà lavoravano per la rivoluzione, e poi impegni sempre più importanti e rischiosi: «A L’Avana si stampava la propaganda, ma poi bisognava portarla nelle diverse province, era importante passare inosservati, una coppia è meno sospetta. Il rischio di essere catturati e torturati a morte dalla polizia era altissimo. Il famigerato capo della V stazione, un noto e spietato assassino mi teneva sotto controllo. E aveva le sue ragioni: una volta fece irruzione con i suoi uomini e le mitragliatrici spianate in casa della mia famiglia, dove nascondevo documenti, materiali e anche armi. I miei, ormai, erano considerati fiancheggiatori del movimento, ed esposti a enormi pericoli».

Chiedo a Isabel se in quella fase ha incontrato altre donne che rivestivano posizioni importanti, e lei mi parla di Marel, che diventò organizadora di una Cellula rivoluzionaria di base, quella nella quale iniziò a lavorare anche lei, col nome di battaglia di Ida. Il capo della V stazione, intanto, non la perdeva di vista, diceva di volerla prendere per «cacciare a calci l’intellettualità»: una ragazza plurilaureata e senza paura non era certo fra le sue simpatie.

«E così finalmente riuscì a catturarmi. Ero destinata alle torture più efferate, ma l’ex nazista Mariano Faget, il capo del Brac, la polizia segreta anticomunista, era stato compagno di studi di mio zio, un famoso e stimato cardiochirurgo, il primo a Cuba ad aver fatto un intervento al cuore. Mi salvò una telefonata: «ho qui tua nipote, se la mandi fuori dal Paese le risparmio la vita». Partii allora per Princeton, dove una mia sorella era sposata con un professore di quella università. Anche Aleida era lì, mi aveva preceduta».

In missione
Ma per le due sorelle l’allontanamento da Cuba non fu che l’occasione per aiutare la rivoluzione dall’esterno, con altri incarichi, altre missioni. Anche il cognato professore era un fiancheggiatore, o almeno un simpatizzante.
«Ci mettemmo subito in contatto con i compagni cubani di New York, e con i marxisti nordamericani che potevano lavorare per la nostra causa. Il clima era quello del maccartismo, la caccia alle streghe per chi era sospettato di comunismo era attivissima e coinvolgeva la popolazione con campagne di propaganda molto efficaci. Anche i semplici viaggi fra Princeton e New York erano molto pericolosi. Partecipai a diverse missioni importanti, una particolarmente rischiosa. Io e Aleida dovevamo accompagnare in due distinte automobili due compagni in Texas, le macchine erano piene di armi che altri attraverso il Messico avrebbero ritirato e portato a destinazione: era il dicembre del 1958, il momento del compimento della Rivoluzione si avvicinava sempre più. Partimmo, la formula era sempre la stessa: una coppia dà meno nell’occhio di un uomo solo. Si trattava di attraversare molti stati, di evitare tutti i controlli. La macchina di Aleida non ebbe problemi, e portò a termine la missione. La mia, invece, uscì disastrosamente fuori strada in Ohio, coinvolgendo nell’incidente anche un camion. Fu difficilissimo tirarsi fuori da quella situazione. Ospitati da una famiglia che volle darci soccorso, approfittammo della distrazione generale della notte di Capodanno e della chiusura della locale stazione di polizia, il 1° gennaio, per disperdere le armi. E proprio in quel momento Fulgencio Batista lasciava finalmente Cuba».

Isabel tornò all’Havana appena possibile. Si trattava adesso di fare lo Stato.
«Di quel periodo ricordo un grande fermento, ma anche molta confusione, la popolazione sempre più coinvolta nel processo rivoluzionario, Fidel e Raúl Castro, Camilo Cienfuegos e Che Guevara saldissimi nella direzione. Fidel era consapevole dello smarrimento generale, ricordo un incontro molto accorato alla Casa del Movimento 26 luglio in cui ne parlò con noi in modo esplicito: lo considerava un problema egemonico da trattare con la massima cura. Il popolo cubano non era interessato solo, o essenzialmente, alla cacciata di Batista, ma lottava per una riforma agraria, e questo era un punto politico molto concreto.

Riforme e teatro
Il Che soffriva moltissimo di asma, e questo lo portava a restare sempre nei pressi del mare. Era un grande ascoltatore, profondo, riflessivo, e parlava poco, misuratamente. Una sera andai a trovarlo nel suo rifugio sulla spiaggia con altri compagni del vertice del movimento. Il comando della rivoluzione era un tema a cui prestavamo molta attenzione, tutto poteva fallire su questo delicatissimo punto. Ricordo che il Che respirava male quel giorno, noi facemmo riferimento ai «capi», lui rispose che di capo ce n’era uno solo. Non ha mai messo in discussione il comando di Fidel Castro e voleva che fosse chiara la sua posizione. Era estremamente leale, non hanno mai avuto disaccordi. Uscimmo rincuorati e rafforzati da quella conversazione».

Obietto timidamente su quest’ultimo punto, almeno in riferimento agli anni successivi, ma Isabel è categorica, ribadisce che non c’è mai stato nessun contrasto, neanche quando il Che ha lasciato Cuba.

«Facevamo tutto con semplicità e coraggio. Io ero responsabile del settore Adoctrinamiento y cultura, avevo solo 28 anni e mi appoggiavo completamente al discorso di Fidel. Ma poi, Con Armando Hart, ministro dell’educazione, scrissi la riforma dell’università, e iniziai la mia carriera accademica in Filosofia. Un giorno un fattorino venne a recapitarmi una lettera e mi domandò: «sei tu Isabel Monal, la direttrice del Teatro nazionale cubano?». Seppi così di essere stata investita del compito. Quando chiesi spiegazioni ad Hart, lui mi rispose: «Sì, Isabelita, devi occuparti di questo elefante blanco». E allora lo feci. A Cuba il teatro fu la scoperta del mondo: il balletto georgiano, la cultura afro-cubana, lo studio della prosa, la musica sinfonica».

Isabel mi stupisce con nomi, iniziative, imprese. Non aveva neanche trent’anni quando le accadeva tutto questo. E a ricevere Sartre e de Beauvoir, insieme a Fidel Castro, nel loro primo, storico viaggio a Cuba, c’era proprio lei.
«Il teatro non era stato neppure completato, ma già operava. Sartre e de Beauvoir passarono per una scalinata di servizio strettissima, a rischio di cadere, di sporcarsi. Ma sostenevano la Rivoluzione, erano curiosi di tutto. Arrivarono in platea e sedettero accanto a me e a Fidel, che fino ad allora non aveva mai avuto a cuore in modo particolare il teatro. Per l’occasione avevamo preparato la rappresentazione de La puttana rispettosa, una critica aspra alla società segregazionista statunitense che Sartre aveva scritto nel 1946. Un successo strepitoso, una comunità in costruzione. Alla fine dello spettacolo de Beauvoir era incantata, e Fidel capì l’importanza del teatro e la sua doppia natura colta e popolare.

Disse a Sartre: «stasera ho scoperto una potente arma per la rivoluzione» e Sartre gli rispose: «Te la affido con molto piacere». L’idillio durò poco, dopo solo un anno i due intellettuali francesi presero le distanze da Fidel Castro e dal modo in cui stava evolvendo la situazione a Cuba. Ma non sollecito Isabel su questo argomento, non fa parte del flusso della sua memoria. E il marxismo e il comunismo di altre realtà di quel momento storico?

«Ho incontrato Mao Tsetung, in occasione del decennale della Rivoluzione cinese. Mao volle vedere, fra gli altri, alcuni intellettuali sudamericani e poiché Cuba aveva appena compiuto la sua rivoluzione, io come delegata del Governo cubano fui particolarmente ascoltata. Ci trattenemmo a parlare, anche se sulla base di un protocollo di comportamento abbastanza lontano dalle forme a cui ero abituata. A quell’epoca sentivo di essere dentro un processo di trasformazione di portata mondiale».

Femminismi
Ma la vera grande passione di Isabel Monal è lo studio della filosofia. Si definisce una filosofa marxista, e come tale ha operato nel corso della sua vita di studiosa e pensatrice. A chi la accusa di un certo dogmatismo risponde che il marxismo è marxismo, ha al centro la lotta di classe e la lotta antimperialista.
Per questo non mi meraviglio quando alle mie domande sul femminismo e sui diritti civili non si entusiasma. Le sue battaglie sono state contro la povertà e per l’istruzione di massa.

«Donne come Rosa Luxemburg o Clara Zetkin sono certamente mie compagne di strada, hanno saputo pensare insieme la lotta di classe e quella per trasformare la condizione femminile, ma io sono prima di tutto marxista: il femminismo da solo non ha una concezione del mondo.
Dal 1980 al 1992 sono stata mandata a Parigi dal Governo cubano per lavorare all’Unesco, nella Divisione per l’educazione superiore e la formazione. Mi occupavo di progetti per il superamento dei dislivelli educativi. Ho viaggiato molto, in Europa, Africa, Sud America, Asia. Ho curato i Quaderni di insegnamento superiore e ho realizzato cose efficaci in Uganda, Angola e tante altre realtà. Naturalmente approfittavo della vicinanza con la Germania per approfondire lo studio del marxismo. E a Parigi frequentavo Georges Labica, Jaques Texier e altri filosofi, che sono stati la mia famiglia in Francia. Ho sofferto per la loro morte, sono consapevole di essere sempre più sola».

È vero, ha ragione. Isabel è sempre più sola a testimoniare la Rivoluzione cubana, ma proprio per questo le sue parole sono preziose. Le mie domande inopportune e i suoi sorrisi benevoli si intrecciano. Cosa resta di quell’esperienza oggi? Può una rivoluzione essere percepita come tale dalle generazioni che l’hanno conosciuta come status quo e non come movimento trasformatore? Cosa divide la democrazia dalla dittatura? E come sarà il domani di Cuba? Isabelita si stringe nelle spalle, lei l’ha già fatto il suo pezzo di storia, cosa voglio ancora?

E il futuro?
«Cuba è schiacciata dall’embargo, che è una cosa crudelissima, cattiva. Non so cosa accadrà. Ho partecipato alla stesura della nuova Costituzione cubana nel 2019, è stato un processo democratico. Alla proposta di di eliminare i riferimenti all’obiettivo di una società comunista mi sono opposta fermamente, e anche molte altre persone, molti gruppi di discussione popolare. Così quelle parole sono rimaste nel nuovo testo, e sono importanti. Se la Rivoluzione cubana non avesse resistito in tutti questi anni, nessun processo di liberazione fra quelli avvenuti in Sud America avrebbe avuto luogo. Qualunque cosa sia di Cuba domani, resta un simbolo. La storia di Cuba va letta nel quadro della contrapposizione fra popoli oppressi e popoli oppressori, un quadro di internazionalismo di lungo periodo, altrimenti non se ne può cogliere l’importanza».

Ripenso al mio viaggio a Cuba, il buffet al Ministero a base di acqua corrente e pane e burro, il serpeggiante dissenso di intellettuali più giovani nei confronti della perseguibilità delle persone omosessuali, la lettura di Gramsci insistentemente rivolta al concetto di società civile, allo scopo di trovare un appiglio marxista contro il moloch dello Stato. E ripenso alla transizione di questi ultimi venti anni, piena di gravi punti irrisolti. Ma penso anche ai medici cubani corsi in aiuto dell’Italia durante la prima ondata pandemica e ripagati con la conferma dell’embargo.

Saluto Isabel.
«Non so se tornerò ancora in Europa, cara compañera.»