Quando nel 1978 Isaac Bashevis Singer vinse il Nobel, ci fu chi rinfacciò al grande autore yiddish di non aver mai scritto un libro sulla Shoah. Era un’accusa infondata e non solo perché l’ombra della distruzione degli ebrei d’Europa è presente, sebbene non in modo manifesto, in tutta la sua opera ma anche perché quel romanzo Singer lo aveva scritto nel 1972: Nemici Una storia d’amore, che ora Adelphi ripropone, nel quadro della ripubblicazione di tutte le opere dei fratelli Singer, in una nuova traduzione di Marina Morpurgo (pp. 257, euro18.00).

La vicenda si svolge nella New York dei primi anni Cinquanta, e il romanzo è stato a lungo ed erroneamente considerato il primo ambientato da Singer in America. In realtà, alla fine degli anni Cinquanta era uscito a puntate, in yiddish, Ombre sull’Hudson, tradotto in inglese solo alla fine degli anni Novanta, i cui personaggi, come quelli di Nemici, erano ebrei sopravvissuti al genocidio.
Singer aveva assistito alla scomparsa del mondo e della cultura in cui era nato e cresciuto al sicuro, dall’altra parte dell’Atlantico, avendo raggiunto il fratello maggiore Israel negli Stati Uniti fin dal 1935. Non poteva raccontare quella immensa sciagura come testimone diretto, raccontò invece l’esperienza dei sopravvissuti arrivati America dopo la tempesta: del resto era e si sentiva anche lui un sopravvissuto, scampato alla cancellazione del suo mondo.

Tutti i personaggi di Nemici, non solo i quattro principali, sono arrivati in America avendo alle spalle le persecuzioni, i ghetti, l’internamento nei campi di sterminio nazisti o nei gulag di una Unione Sovietica nella quale avevano creduto, poi la traversata del continente devastato, dopo la guerra, in cerca di un nuovo rifugio. Ciascuno tenta a modo proprio di curare ferite che sono restie a venire sanate, o almeno di riuscire a convivere con quelle lacerazioni.

La famiglia di Herman Broder, il protagonista, è stata sterminata, mentre lui si è salvato passando anni in un granaio, nascosto in un covone di fieno presso Yadwiga, contadina cattolica ignorante e di gran cuore, che poi per gratitudine ha sposato. Non ha mai cessato di sentirsi braccato. Trova una amante bella, intelligente e interiormente distrutta; ma poi ricompare anche la moglie, un fantasma reduce dai gulag di Stalin ormai trasfigurata, senza più nulla dell’appassionata e battagliera militante che aveva condiviso con Herman, in un altro mondo e in un’epoca lontanissima, un rapporto tanto intenso quanto infelice.

Il protagonista e le sue tre donne sono stati, tutti, travolti dal vortice tragico della storia. Ciò che hanno perso non si limita al loro mondo, quella strana «nazione ost-juden», fatta di fede, tradizioni e cultura, senza Stato né governo, che si era formata nell’esilio ebraico nell’Europa orientale. Hanno perso la fiducia in una qualsiasi sensatezza del mondo: politica, religione, filosofia, hanno svelato la loro impotenza di fronte alla furia devastatrice, e dunque sperimentano l’eredità longeva della Shoah.
L’unica che si salva, in virtù della sua bontà naturale ma anche della sua assoluta semplicità, è la contadina Yadwiga, che si converte all’ebraismo, e si fa custode delle tradizioni, l’unica in grado di dare ancora la vita: metterà al mondo un figlio.
Isaac Singer dava il meglio di sé nei racconti; in questo caso, però, la sua vocazione al romanzo filosofico e a una narrazione visionaria si adatta perfettamente a raccontare la Shoah: non nelle sue atrocità ma nei suoi effetti profondi ed esiziali, destinati a durare molto oltre il tempo dei sopravvissuti.