A un anno esatto di distanza dalla raccolta postuma Sera in paradiso, torna nelle librerie italiane Lucia Berlin, la scrittrice americana morta nel 2004, pressoché sconosciuta in vita, che venne riscoperta in America nel 2015 e da noi l’anno successivo con il volume, presto divenuto un caso letterario, La donna che scriveva racconti. Forse in mancanza di un numero sufficiente di inediti residui, certo per soddisfare la curiosità dei lettori condizionati dai numerosi riferimenti alla turbinosa vita dell’autrice, da lei stessa seminati nella sua narrativa, esce ora, con il titolo Welcome Home (traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, pp. 192, € 20,00) un memoir incompleto, accompagnato da una scelta di lettere e fotografie.
Sono materiali eterogenei, certo non destinati alla pubblicazione in questa veste, selezionati da Jeff Berlin, secondogenito della scrittrice.

Se già i racconti pubblicati lo scorso anno nella raccolta Sera in paradiso mancavano in larga misura di quella sfolgorante ironia che in La donna che scriveva racconti salvava la scrittura di Berlin dall’eccesso di autoreferenzialità, gli scritti di questo nuovo volume, in cui l’autrice propone senza filtri letterari i propri vissuti, non solo non aggiungono nulla al valore e alla comprensione della sua opera, ma risultano a tratti persino imbarazzanti.

L’idea alla base del memoir è accattivante: Berlin si propone di raccontare la propria vita attraverso i luoghi che, nel corso della sua esistenza, ha chiamato «casa». Figlia di un ingegnere minerario, costretto per lavoro a spostare di continuo la propria famiglia in località per lo più impervie, trasferita presso i nonni in Texas durante la guerra, poi in Cile nell’adolescenza e nel New Mexico all’università, è ovvio che Lucia Berlin avvertisse la necessità di una home cui affidare il proprio senso di continuità, da contrapporre alle tante houses: spesso neppure case, bensì capanne, soffitte infestate da topi, rifugi provvisori.

«Ho vissuto in una quantità di posti assurdi … ed essendomi trasferita così tante volte, il posto è molto, molto importante per me», si legge nello stralcio di intervista posto da Jeff Berlin in epigrafe alla sua prefazione. Progettato come una serie di schizzi, impressioni rimaste nella memoria e ricordi, sia visuali sia personali, legati ai luoghi abitati, Welcome Home si arresta, a causa della morte dell’autrice, al 1965.
Più che per i riferimenti alla biografia (peraltro già ampiamente sfruttati nei racconti) il memoir vale per le descrizioni relative ai paesaggi incontrati, e descritti con colorature impressionistiche e prive di notazioni, che ravvivano la scrittura essenziale, nelle intenzioni dell’autrice certamente destinata a successive revisioni (dalle lettere si impara, infatti, che Berlin sottoponeva il proprio lavoro a estenuanti riscritture).
La lista degli inconvenienti incontrati dalla scrittrice nelle diciotto case in cui visse (che si legge in appendice al memoir) lascia intuire la possibilità di una revisione anche radicale di Welcome Home, titolo che, alla luce di valanghe, alluvioni, mancanza di riscaldamento, elettricità o acqua corrente, topi, pipistrelli, tempeste di polvere e di neve, e altri accidenti incontrati consegna a quel «Benvenuti a casa» un senso inequivocabilmente ironico.

Le fotografie che illustrano il memoir raccontano tuttavia un’altra storia: le persone ritratte sono felici, sorridenti; le spiagge, incantevoli; i paesaggi idilliaci. Anche nelle espressioni dell’autrice si cercherebbero invano i segni di un’infanzia difficile, dell’alcolismo che le avrebbe devastato la vita, come già aveva devastato quella della madre e del nonno materno; dei turbamenti comportati dai tre divorzi; delle preoccupazioni indotte dalla tossicodipendenza del terzo marito, Buddy Berlin, o dell’indigenza che la riguardò per la maggior parte della vita.

La scelta delle immagini non va fatta risalire all’autrice (diversamente da quanto accade, per esempio, in Lettura di un’immagine o Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano), bensì all’intento di soddisfare la curiosità dei lettori, aprendo loro l’album della famiglia Berlin, ovviamente ingannevole e incompleto.
Quanto alle lettere che chiudono il volume, è difficile comprendere quale criterio abbia mosso Jeff Berlin a selezionarle tra le migliaia scritte dalla madre. Sembrerebbe che a guidare la loro presenza nel volume sia stata la necessità di raggiungere un numero sufficiente di pagine per completarlo, motivazione che avrebbe di certo mandato su tutte le furie la scrittrice, almeno stando alla risposta che diede al suo editore, quando la invitò a aggiungere cento nuove pagine al libro in corso di pubblicazione: «Perché cazzo non chili o metri…».

Infarcite di maiuscole, puntini di sospensione, parole enfatizzate a caratteri cubitali, espressioni come «grandioso», o «uno sballo», le lettere (che vanno dal 1944 al 1965) rimandano l’immagine di una giovane donna piuttosto infantile sia nelle reazioni emotive sia nella sua strategia di gestione della quotidianità.
Forse l’impressione deriva dal tono estremamente colloquiale e leggero con cui Lucia Berlin si rivolge ai suoi destinatari, fatto sta che a parte i momenti in cui riflette sul suo bisogno di una casa – «È questa cosa che vorrei davvero esprimere, la mia soggezione, la mia totale incomprensione per una casa vera dove crescono le betulle piantate alla nascita di ciascun bambino» – tutto quel che resta al lettore è la spiacevole sensazione di intrufolarsi nella posta altrui, per poi provarne imbarazzo.