È folta la schiera di donne che hanno contribuito a scrivere la storia di Dio narrata nella Bibbia, ma i numerosi redattori biblici, rigorosamente maschi, sembrano non essersi accorti della profondità delle struggenti vicende di quelle eroine, se liquidano con pochi cenni drammi in cui lo stesso Dio è modellato a immagine e somiglianza della società patriarcale del tempo.
E forse non è un caso che, anche nella successiva tradizione occidentale, le figure bibliche femminili abbiano trovato maggior spessore e carattere nell’arte piuttosto che nel pensiero e nella teologia, in essa ridotte a scarne sagome di principi morali, private di una loro esistenza autonoma, come di recente ha messo bene in rilievo Massimo Cacciari (Generare Dio, Il Mulino 2017) a proposito di Maria.

Ed è ancora l’arte, nei tre drammi della poetessa Grazia Frisina raccolti sotto il titolo di Madri (Oedipus, pp. 117, euro 12,50, prefazione di Marinella Perroni), che ci guida nelle pieghe del vissuto delle meno note Agar e Rizpà, della sterile Sara poi madre di Isacco, e di Maria. Sono storie di concubine, quella della giovane Agar sacrificata dalla stessa Sara ad Abramo per garantirsi una discendenza, e quella di Rizpà del re Saul, nelle cui scelte Frisina legge il titanico coraggio di un riscatto dalla violenza di dover appartenere a qualcuno che non si è scelto e di veder subire sorti disgraziate ai propri figli.
La prima, sfidando le convenzioni sociali non solo per amore del figlio Ismaele ma anche per se stessa, decide di partire per costruirsi finalmente un’esistenza propria; l’altra, ai cui figli uccisi è negata sepoltura, reagisce con l’obiezione di coscienza al potere regale, impartendo così un’altissima lezione morale al re e a tutto il popolo. Struggente poi il monologo di Maria, che la Frisina restituisce alla sua verità di donna, intuendone il desiderio di essere «priva di santità, solo Maria», madre sgomenta di fronte alla morte del figlio al cui strazio gli evangelisti non hanno saputo prestare nemmeno una parola.