Nel flusso inarrestabile delle nouvelles vagues cinematografiche europee degli anni ’60, la ex Jugoslavia occupa una posizione assolutamente peculiare, sia per le implicazioni politiche, che la trasformarono in un vero e proprio megafono contro la burocrazia dei cosiddetti duchi del Socialismo, che per la libertà estetica difficilmente ripetibile e rintracciabile, nella stessa caratura sovversiva, in altri luoghi del mondo.
Karpo Godina, figura centrale di tre decenni di cinema jugoslavo (nonché, dall’indipendenza ad oggi, di trent’anni di cinema sloveno), è sempre stato un cineasta difficile, se non impossibile, da definire o circoscrivere: regista, direttore della fotografia, sceneggiatore, montatore in una combinazione esplosiva di sperimentazione linguistica e impegno sociale e politico. Il regista, al quale il Bergamo Film Meeting ha appena dedicato una retrospettiva completa della sua opera (sia come regista che come direttore della fotografia), ha ripercorso con noi la genesi, personale e politica, del suo essere cineasta, la sua esigenza di catturare lo spirito del tempo e la ricerca di nuove forme…
Alcuni suoi compagni di cinema e lotta, come Zelimir Zilnik, hanno sempre lodato la grande disponibilità di circolazione in ex Jugoslavia, a differenza di altri paesi, di film stranieri. Lei che ricordi ha di quel periodo e, di conseguenza, della sua formazione cinematografica?
La ex Jugoslavia, pur essendo dietro la cortina di ferro, aveva il vantaggio di aver accesso a tutti gli altri film che in Polonia o in Repubblica Ceca non si vedevano. La cultura jugoslava è sempre stata molto «disponibile» alla circolazione del cinema: tutti i grandi film internazionali arrivavano nelle nostre sale e non parlo delle cineteche ma dei circuiti «normali». Provenivo da una famiglia di artisti, mia madre era una famosa attrice mentre mio padre era fotografo ma anche una celebre figura della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale. Da studente, iscritto all’Accademia d’arte di Lubiana, ricordo le visioni dei film di Marco Bellocchio, Roberto Rossellini, addirittura Glauber Rocha. Per la mia generazione però la vera e propria scoperta fu il cinema sovietico perché quando ero ancora al liceo, il conflitto ideologico fra Russia e Jugoslavia era al suo apice e così il cinema sovietico era l’unico «proibito» Dopo il 1965 le relazioni si allentarono e per me fu straordinario scoprire cineasti per me fondamentali come Aleksander Medvedkin ad esempio.
Fin dai suoi primi lavori, si percepisce con forza l’influenza di Godard, del Neorealismo italiano ma anche, come ha appena ricordato, della scuola sovietica…
Per quanto riguarda il cinema italiano, la maggiore influenza era ovviamente il Neorealismo che, per me, era solo la base dove si incorporava la critica della società. La forma invece è stata influenzata certamente dalla Nouvelle Vague francese e la povertà dell’industria cinematografica del mio paese mi ha quasi obbligato ad approcciarmi alla forma documentaria. Non abbiamo mai avuto un «mercato» adeguato per realizzare film con attori o maestranze professioniste ma il mio background da fotografo mi ha sempre permesso di osservare la società anche senza grandi mezzi produttivi.
A proposito di limiti, alcuni dei suoi primi cortometraggi, come «Il cervello fritto di Pupilia Ferkeverk», «Sull’arte dell’amore o film con 14441 fotogrammi», ma soprattutto «Mi manca Sonia Heine», presentano una fortissima limitazione per quanto riguarda la macchina da presa: frontalità del corpo attoriale e nessun movimento di macchina. Per lei, all’epoca, la libertà poteva fuoriuscire soltanto dalle gabbie?
Volevo scoprire quanta libertà si poteva raggiungere limitando così fortemente la macchina da presa. Nei miei piccoli lavori precedenti usavo la macchina da presa in una maniera che potrei definire selvaggia: correvo, cercavo le posizioni più ardite, le mie braccia la agitavano senza sosta e a un certo punto ho deciso di cambiare radicalmente questa mia attitudine spericolata.
«Mi manca Sonia Heine» è un cortometraggio collettivo di 14 minuti girato, oltre che da lei, da registi come Dušan Makvejev, Paul Morrissey, Frederick Wiseman, Tinto Brass e Miloš Forman e realizzato nel corso di una notte durante il festival di Belgrado. Che ricordo ha di quella sorta di happening dadaista?
Non avrei mai osato pensare che addirittura otto registi accettassero questa sfida. Prima ancora che il festival iniziasse, mi ero recato nell’hotel dove alloggiavano e aspettavo di incontrarli nella hall, con in mano due pagine ciclostilate che illustravano le «regole» del gioco: durata tre minuti, camera fissa senza zoom o panoramiche e la frase dei Peanuts «I miss Sonja Heine». Ricordo che Milos Forman, che era a Belgrado per presentare Taking Off, decise di dedicare il suo sketch a Dalton Trumbo e al suo E Johnny prese il fucile.
Tra i suoi lavori come direttore della fotografia, spicca la partecipazione, nel 1969, a «Rani radovi» di Zelimir Zilnik, uno dei film, ispirato da riflessioni marxiste, che ha respirato la rivoluzione nel suo farsi, quella brevissima parentesi sessantottina in Jugoslavia. Che ricordi ha di quella scintilla?
La nostra lotta era contro il governo, contro una società che si proclamava, solo a parole, socialista, terzomondista ed autogestita e la cosa paradossale è che, dopo i primi giorni, eravamo convinti di aver acquisito il diritto di protestare visto che non venivamo fermati dalla polizia. Dopo cinque giorni di contestazioni però, Tito parlò in televisione e disse «Parte di questa protesta si basa su motivazioni sacrosante» ed eravamo così convinti ed entusiasti che lasciammo le strade e le università. L’illusione della vittoria fu di brevissima durata perché alcuni giorni dopo sciolsero le organizzazioni giovanili, iniziarono le persecuzioni e gli arresti.
Nel 1972 cominciarono i suoi problemi con il governo e la censura ma, a differenza del suo amico Makavejev ad esempio, lei è rimasto in Jugoslavia e si è dedicato, per una decina d’anni, a lavorare sui set come direttore della fotografia o in cabina di montaggio. Che cosa determinò la sua scelta di restare?
Dopo Sull’arte dell’amore o film con 14441 fotogrammi cominciarono i problemi. Girai quel corto durante il servizio militare e mi venne commissionato direttamente dallo Stato per fini di propaganda. Avevo a disposizione tutta la pellicola del mondo e oltre 20.000 soldati ma decisi di montare le immagini del loro addestramento sulle colline macedoni con i volti e le parole di alcune donne di un villaggio vicino che vivevano isolate dai militari. Arrivò una sorta di «onda bianca», dopo il 1972, che flirtava apertamente con il governo, e il mio nome finì in una specie di lista nera. Per poco riuscii a evitare la galera ma la conseguenza fu che per dieci anni mi fu proibito di fare il regista .
Non sono andato all’estero perché ero capace di fare il tecnico o il direttore della fotografia, nel frattempo ricevevo molte proposte e così potevo continuare a cavarmela da solo. Fra gli anni ’70 e ’80 ho mandato dieci sceneggiature sperando che venissero approvate ma niente poi, grazie a delle circostanze alquanto fortunate, Filip David, che lavorava alla tv di Belgrado, lesse la sceneggiature de Il ratto della Medusa, il primo lungometraggio, e da lì è cominciata una sorta di resurrezione per me che, fortunatamente, continua ancora oggi.