Il 26 agosto scorso un’enorme frana si è staccata dal Piz Cengalo trascinando quattro milioni cubi di roccia verso l’abitato di Bondo. Siamo in val Bregaglia, nei Grigioni svizzeri, a pochi chilometri dal confine italiano di Chiavenna. Bondo è un piccolo paese, oggi fa 204 abitanti in tutto. Case contadine intonacate di bianco, stradine strette con tanti angoli a gomito, che sembrano pensate per giocare a nascondino. Tra queste case c’è anche quella che è stata abitata tra 1963 e 1977 da Willy Varlin, quel geniale folletto che ha percorso contromano la storia della pittura europea del secondo Novecento. Tra quelle case c’è anche il suo studio molto contadino, in piena zona rossa, che per settimane è stato uno scrigno irraggiungibile con dentro imprigionate alcune delle immense tele, dipinte in particolare negli ultimi anni della sua vita. C’è voluto un intervento da monument’s men per liberarle e portarle finalmente in sicurezza. Per un istante quel 26 agosto (poi c’è stata anche una seconda frana nei primi giorni di settembre) qualcuno può aver pensato che se la montagna si era mossa dovesse centrare in qualche modo Varlin, per via di quella sua pittura squassata e squassante che trasformava le tele in epicentri di terremoto. Un pensiero surreale che però «ci sta», se non altro perché Varlin, con la sua ironia, sarebbe stato il primo ad accreditarlo…
Di Varlin quest’anno ricorrono i quarant’anni dalla morte e due mostre lo ripropongono: un’antologica sintetica e ben curata al Museo Franz Gertsch di Burgdorf (a pochi chilometri da Berna, sino all’8 marzo 2018) e un’esposizione dedicata in particolare ai lavori dei primi anni alla Galerie Carzaniga di Basilea. La mostra di Burgdorf è ospitata in casa di uno degli artisti svizzeri oggi di maggior appeal e successo internazionale, Franz Gertsch. E questa sede, un po’ di stampo white cube, si rivela perfetta per restituire in modo diretto e pulito tutta l’energia che la pittura di Varlin mostra ancora oggi di saper scatenare.
Era venuto al mondo il 16 marzo del 1900 a Zurigo, «nato pesce con una sorella gemella», scrive in una serie di brevi e bizzarre note autobiografiche. «Come neonato – prosegue – avrò avuto l’aspetto che ha mia figlia nei miei quadri, pianti diabolici e relativi odori. Più tardi i primi passi nello spazio, il frugare in profonde scatole, lo sparire dentro armadi bui, la scoperta della terza dimensione, ignorata da moderni artisti bidimensionali». C’è un po’ tutto Varlin in queste poche righe, a cominciare dall’ultima notazione che rievoca lo spavaldo confronto con Max Bill: nel 1970 quest’ultimo aveva esposto all’Helmhaus di Zurigo delle opere di Varlin contro la sua volontà, e Varlin si era presentato con tanto di lametta, tagliuzzando i propri quadri. Disse poi che le opere vere reggono ogni offesa, mentre sono quelle degli «ingegneri» dell’arte alla Max Bill a crollare al primo minimo graffio.
In questa autobiografia dall’andamento esilarante e canzonatorio, Varlin sorvola su gran parte della sua attività espositiva, ma significativamente non dimentica una mostra del 1964. «Harald Szeemann mi espone alla Galleria Municipale di Bienne», scrive. Sottolineatura importante, destinata a chi voleva rinchiuderlo in una sorta di retrovia dell’arte, quella della pittura figurativa. Da questo punto di vista, la mostra di Burgdorf, a quarant’anni di distanza, per la qualità delle opere esposte e per l’essenzialità delle scelte, riporta Varlin in quello spazio libero, senza sponde, che gli è più congeniale. Se era caustico nei confronti di un’arte alla Max Bill, schiacciata su una mentalità industriale, non lo era certo meno rispetto al filone svizzero dei pittori di montagne e «di gerani» (nella cui schiere inseriva anche Ferdinand Hodler e Cuno Amiet…). Varlin, per stare in un orizzonte elvetico, in effetti oggi rivela più affinità con gli ingegnerismi estrosi di un Tinguely o con la tavole sporche di un Daniel Spoerri. Non rinnega mai la figurazione, ma la cavalca in modo dadaista, come accade nel suo omaggio a Giovanni Segantini (1973), dove ricorse a vere feci di vacca per completare la mucca dipinta. O come in occasione della irridente performance realizzata a Bondo, quando mise alcune sue tele dipinte in una lavatrice piazzata (e accesa) nel mezzo di un vicolo e filmò il rivolo di acqua colorata che ne usciva…
La sua decisione di lasciare Zurigo e di seguire sua moglie Franca Giovanoli (sposata nel 1963 e da cui ebbe una figlia, l’amatissima Patrizia, nel 1966) nell’isolamento di Bondo s’inquadra in questo suo radicale antischematismo. Sceglie di mettersi ai margini, non solo perché si sente più «a casa», ma per poter meglio terremotare i luoghi comuni. «Varlin pittura, sì; ma nel dipingere, adesso, detronizza la dea; pittura, ecco depitturando. Dipinge, disdipingendo», scrisse non a caso Giovanni Testori, suo grande amico, critico e sodale. Quel Testori che pur in quegli anni aveva difeso le trincee della pittura sulle frontiere di mezza Europa… Varlin è un’altra cosa: il nickname (il vero nome era Willy Guggenheim) del resto gli viene da Eugéne Varlin, anarchico, tra i protagonisti della Comune parigina; glielo «impose» negli anni trenta Leopold Zborowski, il grande mercante di Modigliani e di Soutine. È un artista che aveva nel suo dna una energia scardinante, cui diede libero corso in particolare negli ultimi anni, in quell’autoesilio felice e surreale di Bondo. A Burgdorf è esposto il grande quadro che lui volle realizzare proprio in omaggio ai suoi «compaesani». Ha un titolo volutamente e un po’ sfrontatamente in italiano («Gente del mio paese») e un’andatura falstaffiana: i protagonisti, presentati uno per uno per nome, sono come guitti convocati sulla giostra sconvolta della pittura di Varlin. Accadde così che un linguaggio espressivo fuori dalle regole e dalla gabbia degli stili come il suo poté incontrare e incarnarsi in un’antropologia corrispondente. Varlin, infatti, alla fine «varlinizzava» sempre i suoi interlocutori, o almeno quelli, che attratti dalla sua irresistibile simpatia umana e artistica, accettavano di stare al gioco. Tra i pellegrini di Bondo, Testori a parte, c’erano anche nomi nobili come Friedrich Dürrenmatt, Max Frisch, Hugo Loetscher o Cartier Bresson, tutti felici di farsi inghiottire nel gorgo varliniano.
Se già nella stagione parigina e zurighese la sua pittura faceva leva su prospettive scompigliate d’impronta soutiniana, con esiti di una freschezza ancora intatta, a Bondo Varlin si sente nelle condizioni di poter definitivamente sdoganare la sua natura. Testori, da parte sua, lo fomentava, e in una lettera gli suggeriva di «dipingere come se mangiasse… di lavorare su grandi cose: su cose che sembrano non avere o uscire dalle umane dimensioni». Dipinge infatti a dimensioni monumentali il Letto (1975) imbarcato e sfondato che teneva nello studio: un quadro capace di trasmettere non solo le forme, ma anche gli odori e il peso dei corpi che quel letto aveva accolto. La veduta di Bondo sotto la neve (1974) è invece un ganglio di architetture genialmente squinternate, osservate da un occhio tanto rapace quanto capace di irradiare un’irriducibile simpatia.
La mostra si apre e si chiude con l’Autoritratto del 1975. Varlin ci scruta con uno sguardo perforante e bambinesco da dietro quella crosta caotica di colore che, come per un violento risucchio, ha sagomato la sua figura nella tela lasciata quasi a nudo. Sta seduto sulla squassata poltrona nel suo studio come se stesse su un carico di dinamite destinato a far deflagrare lo spazio. Un’immagine indimenticabile, di un’intensità umana «fuori dimensioni», la cui onda lunga potrebbe davvero essere stata in grado anche di smuovere le montagne.