Nelle prime pagine dell’antologia Gennaio senza nome (Nutrimenti, pp.191, euro 17,00) nella quale Eugenio Maggi ha raccolto, tradotto e annotato otto racconti di Max Aub finora inediti in Italia, c’è una foto che mostra l’autore (un omino poco più che quarantenne, malridotto ma dall’aria per nulla rassegnata) nel campo di detenzione di Djelfa, in Algeria, dove il governo francese l’aveva rinchiuso in quanto «pericoloso comunista». In realtà Aub, nato in Francia nel 1903 da padre tedesco e madre parigina, era iscritto da anni al Psoe, ma la cosa aveva scarsa importanza, visto che a renderlo «indesiderabile» contribuivano il suo essere ebreo (benchè tenacemente ateo), la cittadinanza spagnola presa in gioventù e il sostegno alla Republica, che l’aveva nominato addetto culturale a Parigi.

Se, nonostante tutto, lo scrittore poté uscire vivo da Djelfa, mentre molti suoi compagni finirono nelle fosse comuni, fu grazie all’ambasciatore messicano Gilberto Bosques, protettore dei rifugiati spagnoli in Francia, che nel 1942 lo aiutò a imbarcarsi su un piroscafo carico di fuggiaschi respinti dall’Europa, ma accolti a migliaia dal Messico. E in Messico, trent’anni dopo, Aub sarebbe morto, non esattamente spagnolo e mai interamente messicano: un eterno esiliato che l’amico Francisco Ayala – ricorda Maggi nell’introduzione – definiva «il più esiliato di tutti gli spagnoli», qualcuno che parlava di sé come di un uomo «sempre a metà», un autore senza pubblico, censurato in Spagna, ignorato dagli editori messicani: una amarezza non ingiustificata, visto che solo in anni recenti le sue opere sono diventate oggetto di interesse non escusivamente per i critici, ma anche per una agguerita minoranza di lettori.

Quando, all’inizio della prima guerra mondiale, gli Aub erano fuggiti da una Francia che li considerava boches e sales juifs, per trasferirsi a Valencia, il giovanissimo Max aveva irrevocabilmente deciso di votarsi a un’altra patria e a un’altra lingua, diventando non solo spagnolo, ma «uno scrittore spagnolo»; il secondo esilio l’avrebbe poi trasformato in testimone esemplare della guerra civile e dello sradicamento, temi fondanti di un’opera vastissima che include racconti e romanzi, saggi, copioni cinematografici, opere teatrali, innumerevoli articoli per giornali e riviste, i versi del Diario de Djelfa e un’ampia produzione diaristica.
Quella di Aub non è, tuttavia, una testimonianza che si cristallizza intorno al ricordo del passato o alla speranza di un futuro impossibile, e meno che mai una sorta di comoda «professione»; la vediamo evolversi, invece, in lucida riflessione critica e prendere forme inaspettate, come dimostra la ridotta ma ottima scelta di testi curata da Maggi, che disegna in modo attendibile la traiettoria dello scrittore, dalla difesa militante della memoria – il primo racconto,«Gennaio senza nome», rimanda ai sei romanzi sulla guerra civile che compongono il ciclo El laberinto magico, intricata epopea collettiva con centinaia di personaggi, ancora oggi una delle più efficaci rappresentazioni del dramma spagnolo – al crescente pessimismo e al senso di fallimento rispecchiati in Colpo di Grazia, storia un esule rientrato in patria e annientato dal «memoricidio» che ha cancellato ogni traccia della Repubblica.

Gli otto racconti, inoltre, danno conto della poetica e della scrittura di un autore sorprendente e a volte geniale, capace di rinnovarsi in modo imprevedibile, che non esita a movimentare con audaci soluzioni formali il rigido realismo richiesto dalla letteratura testimoniale. In «Gennaio senza nome», per esempio, il narratore è un faggio centenarioche assiste al passaggio dei profughi diretti, sotto le bombe e nel caos, verso la frontiera, evocando in una prosa poetica frammentaria e spezzata, immagini degne di Los desastres de la guerra di Goya. La scelta di una voce narrante tanto inconsueta, anticipa un lungo racconto non incluso nella raccolta, «Manuscrito cuervo», trattato scientifico-antropologico sulla natura umana compilato dal corvo Jacobo sulla base di un attento studio del campo di Djelfa e dei suoi abitanti: un eccezionale esempio di umorismo nero, che tuttavia non attenua la tragedia della prigionia.

In realtà, anche se la guerra civile gli ha suggerito una scrittura più trasparente, più vicina alla «intuizione serena, profonda e totale della realtà» di Pérez Galdós, del quale si percepisce l’influsso nei romanzi di El labirinto magico, Aub non ha mai consumato del tutto il distacco dall’adesione giovanile all’avanguardia, il cui primo frutto era stato, nel 1934, Vida y obra de Luis Álvarez Petreña, biografia di un inesistente scrittore morto suicida, corredata dai suoi altrettanto inesistenti inediti e da puntuali paratesti.

Man mano che gli anni passavano e cresceva la disillusione circa le sorti della Spagna e il senso dell’esilio, sembrò che il realismo testimoniale (sia pure temperato dalla esuberanza creativa dello scrittore) non fosse più sufficiente a raccontare «la vera realtà»: si affacciò quindi la tentazione di sperimentare, di ritrovare una dimensione ludica che, tuttavia, non escluse l’impegno e i temi di sempre. Crebbe la passione di Aub per i falsi e gli apocrifi costruiti con cura maniacale (dettagli tipografici, copertine, materiali iconografici: niente venne lasciato al caso), il cui frutto migliore è Jusep Torres Campalan, monografia del 1958 su un immaginario pittore cubista catalano, che nel 1914 lascia l’Europa e si rifugia nel Chiapas. Di lui si illustrano la vita e l’arte, con tanto di critiche autorevoli, di fotografie che lo ritraggono con Picasso e di riproduzioni delle opere: una efficace parodia dell’arte moderna e della critica, e una burla ben riuscita (Aub organizza perfino due mostre del pittore, e rivela l’inganno solo quando appare l’edizione francese). E una burla feroce è anche Crimini esemplari (tra i pochi libri tradotti in italiano, tutt’ora nel catalogo Sellerio), raccolta delle brevissime confessioni di surreali omicidi, che anticipano la voga del microrrelato, si avvicinano all’aforisma e denunciano con crudele ironia l’assurdità della violenza e della morte.

Accanto ai falsi più spudorati e convincenti, però, ci sono le ucronìe, delle quali l’antologia curata da Maggi ci fornisce due piccoli ma deliziosi esempi: nelle paginette che chiudono il volume, Franco viene deposto da un matador repubblicano realmente esistito, mentre in «La verdadera historia de la muerte de Francisco Franco», lungo racconto del 1960, un cameriere messicano riesce a eliminarlo con un ingegnoso attentato, nella speranza che, scomparso il dittatore, i vocianti e molesti fuorusciti spagnoli se ne tornino a casa.
A questo punto, forse, Max Aub, era arrivato alla conclusione che, se non si può cambiare la Storia, tanto vale reinventarla a partire dal desiderio e da tutto ciò che non è stato, ma anche dalla nostalgia di un futuro impossibile, resuscitando vecchi amici, rovesciando governi, sopprimendo nemici che non si decidono a morire. Nessuna notizia falsa, nessun autentico inganno: soltanto sogni, che una letteratura intesa come «messa in scena» può realizzare, sebbene per un attimo.