Mia sorella più grande faceva pugilato. Tornava a casa con gli occhi neri. Si guardava allo specchio e sorrideva. Lo trovavo surreale. Poi ho capito quella felicità». C’è qualcosa di epico, poetico e profondamente politico nell’indole di Irma Testa. Ventisei anni non ancora compiuti, a forza di sfondare soffitti di cristallo ha aperto un varco leggendario nel pugilato italiano femminile. Atleta delle Fiamme Oro della Polizia di Stato, campionessa europea, prima pugile a rappresentare la nazionale alle Olimpiadi (Rio 2016). Medaglia di bronzo pesi piuma ai Mondiali di Tokyo 2020; Oro conquistato lo scorso marzo a New Dehli. Questi alcuni dei suoi traguardi, impensabili per una donna, prima che questa bambina vivace e «capa tosta» varcasse la soglia della palestra di Lucio Zurlo, maestro di boxe e di vita che allena campioni, togliendoli dalla strada, dal 1966.

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Irma Testa dei record, è campionessa mondiale di boxeSiamo tra mare e Vesuvio, nell’ex quartiere operaio di Provolera, Torre Annunziata. Da allora, Irma, detta «Butterfly» (da qui il titolo del bel documentario che Alessandro Cassigoli e Kasey Kauffman le hanno dedicato) sta scrivendo la storia del pugilato femminile. Una storia di sacrifici e riscatto, mossi dalla volontà precisa e consapevole di abbattere muri e preconcetti secolari – «È ancora difficile vedere una bambina che si allena in palestra». La raggiungo al telefono in uno dei rari momenti di pausa dagli allenamenti, dopo la recente vittoria che l’ha definitivamente consacrata leggenda. La voce calma, chiara, precisa. Omen, nomen.

Tutto inizia alla Boxe Vesuviana di Lucio Zurlo. Chi è Zurlo per te e per la tua città?

Il maestro Lucio è un’autorità, a Torre lo conoscono tutti. Facevo doposcuola da sua moglie. Un giorno mi ha detto: «Vieni in palestra». Avevo 12 anni. Mi allenavo un’ora, restavo fino a sera a guardare i più grandi. La palestra è stata una seconda famiglia, ci trascorrevo la maggior parte del tempo, prima stavo sempre in strada. Da piccola ero iperattiva. Dopo quell’ora, non avevo le forze di fare nulla: questo mi ha cambiato. Adesso ho un equilibrio interiore, difficilmente perdo la calma. Provolera è come tutte le periferie d’Italia. Me ne volevo andare, non c’erano opportunità per me. Quando a 14 anni mi hanno proposto di andare ad Assisi in nazionale, mia madre ha detto: «Scappa». Se ci fossero stati i presupposti per rimanere, l’avrei fatto. La realtà è che c’è poco per i giovani. Molti ragazzini hanno come esempio quello di alcuni adulti: soldi facili, bella vita, mentre magari a casa hanno un genitore che lavora dalle 7 del mattino alle 9 di sera e non può comprargli neanche un paio di scarpe. Perché spaccarsi la schiena? È facile seguire l’altro modello. Il maestro passava per la Provolera, prendeva i bambini, li portava in palestra. Molti diventavano pugili, altri guardavano: era un modo per tenerli lontano dalla strada. Ne ha salvati tanti. È uno di quegli eroi silenziosi, sconosciuti. Ha sacrificato la sua vita per i giovani, senza avere nulla in cambio, anzi. Le prime volte che partivo, era lui a mettermi i soldi in tasca: a casa non potevano sostenermi. È stato un padre, non solo per me.

La pugile insieme al suo maestro, Lucio Zurlo

Cosa insegna il pugilato?

A me ha insegnato a stare al mondo. Il pugilato, e il maestro Lucio. Non parlavo una parola di italiano. Andavo a scuola contro voglia. Il maestro prima di tutto mi ha insegnato l’importanza di studiare. Prima di stare sul ring, il pugilato mi ha insegnato a stare nella società, parlare con gli altri, rispettarli. A cadere e rialzarmi. È successo tante volte, è il bello dello sport. Non è importante la medaglia che vinci: questo l’ho capito dopo Rio, il momento più brutto della mia vita. L’importante è il percorso che fai per costruire quella medaglia.

Trovi che il pugilato sia una forma di spettacolo?

Tutto ciò che accade all’interno del ring è una forma d’arte. C’è chi lo fa in maniera più tecnica, chi più aggressiva, ogni pugile è diverso: difficile trovare due pugili uguali. Io dico sempre che sul ring ballo. Non voglio che la gente dica: «Che bella pugile». Voglio che si ricordino del mio spettacolo. Cerco di fare cose diverse. Preferisco fare più movimento sulle gambe, a prescindere dall’avversario che ho di fronte, piuttosto che mettere a segno tre colpi buoni che mettono a terra l’avversario. Non mi interessa.

Da qui il soprannome «Butterfly»?

Anche. Quando ho iniziato, odiavo i cazzotti. Invece occorre subito imparare ad avere un buon rapporto con i colpi: devi mettere in conto che li prenderai. Io invece fuggivo. Evitando i colpi, fai fatica anche ad assestarli: sei troppo lontana. Il maestro diceva: «Non fare la farfalla impazzita! Fermati e mena». Crescendo, ho imparato a riceverli. Dopo questo salto di qualità, mi ha detto: «Ora non sei più una farfalla impazzita, ma solo una farfalla». Butterfly.

Sei una delle poche sportive ad aver fatto coming out. Perché alcuni argomenti sono ancora tabù? Cosa ti ha spinto a farlo?

Lo sport per i ragazzi è molto importante: gli atleti sono modelli da seguire. Molti vorrebbero esporsi ma pensano: «E poi che gli dico a quel bambino?». Al bambino dici che sei così e fai capire che va benissimo essere così, che è normale. Se dici di essere gay, per quel bambino non sei meno forte, non sei meno idolo. Dopo le Olimpiadi, tutti mi chiedevano del fidanzato. Mi dava fastidio inventarne uno a caso solo perché non potevo dire: sto con una donna. La trovavo anche una mancanza di rispetto nei confronti dell’altra persona. Così mi dissi: posso fare solo del bene. Era un momento difficile per i diritti civili, dopo l’ennesimo affossamento del Ddl Zan. Ho scelto di farlo dopo essermi confermata un’atleta di livello: dopo la medaglia olimpica, la più ambita di tutti gli sportivi, nessuno poteva mettere in discussione il mio valore. Pur essendoci tantissime persone come me, non sono cose che si ascoltano tutti i giorni in ambito sportivo. Lo sport è lo specchio della società. Nel nostro circuito ci sono tutte le dinamiche che puoi trovare, ad esempio, in una classe. In tanti e in tante mi hanno scritto per ringraziarmi, chiedermi aiuto o consiglio, raccontarmi che quel gesto aveva dato loro il coraggio di dirlo ad amici e genitori. Questa è una cosa bellissima.

In Italia se stata la prima donna a partecipare a un’Olimpiade di pugilato. Cosa succede nel resto del mondo?

Ci sono molti paesi in cui le bimbe iniziano a combattere prima, alcune squadre hanno tantissime riserve, penso a Russia, America, Inghilterra, dove non c’è differenza nel pugilato maschile e femminile. Oggi in Italia siamo a un ottimo livello rispetto a quando ho iniziato, ma non c’è ancora grande apertura mentale sul pugilato femminile. L’attenzione mediatica che si è creata su di me, oltre a essere un riconoscimento per quello che faccio, serve al movimento: per far avvicinare quante più bambine possibile alle palestre.

Cosa hai pensato quando ti hanno convocata alle Olimpiadi?

Mi sono detta: questo è il momento finalmente in cui tutti capiranno. Pensavano lo facessimo per gioco, per avere una squadra che ci rappresentasse, per la quota rosa della situazione. Andare alle Olimpiadi è stata la dimostrazione di quanto facessimo sul serio. Non ti dico quando si sono qualificate solo quattro donne e nessun uomo. Tutti dipendevano da noi: gli appassionati non avevano i maschi da seguire, dovevano seguire per forza le donne. Un grande schiaffo morale.

Da «grande» ti vedi sempre sul ring?

Per ora sì. Dopo mi piacerebbe fare qualcosa per le ragazze che iniziano. Magari l’allenatrice.