È uno scenario di instabilità politica, quello che consegnano le elezioni alla Repubblica d’Irlanda – ovvero, alle «26 contee», come viene ancora chiamata in ambienti repubblicani, in virtù del fatto che sei contee del nord sono ancora sotto giurisdizione britannica. Causa principale dell’incertezza, la verticale perdita di consenso della coalizione di governo uscente, una coalizione centrodestra-centrosinistra composta da quello che è ancora oggi il maggior partito, il Fine Gael, sceso da 76 a meno di 50 seggi, e i laburisti. Se nelle elezioni precedenti i due partiti avevano ottenuto praticamente due terzi dei seggi, ora si ritrovano con un consenso dimezzato, e ben lungi dall’ottenere la maggioranza in parlamento. I veri sconfitti delle elezioni sono però proprio i laburisti, che conservano 6 o al massimo 7 dei 37 seggi che avevano. Hanno pagato l’aver abdicato alla missione storica del partito, per aderire pedissequamente alle politiche dettate dalla Troika, abbracciate in maniera convinta da Fine Gael.

Gran parte del consenso moderato del governo uscente ha finito per rivitalizzare invece l’altro grande partito conservatore, il Fianna Fáil, che alcuni davano per morto dopo le elezioni precedenti. Vedranno i loro 20 seggi ottenuti nel 2011 più che raddoppiati. Viene infine letteralmente spazzata via dallo scenario politico, la destra di Renua, il cui cavallo elettorale di battaglia era stata la proposta della flat tax.

Il vero e proprio salasso dei laburisti ha portato a un travaso di voti verso i partiti di sinistra e radicali, e naturalmente verso Sinn Féin. È ora la terza forza del paese, e si propone non solo di guidare l’opposizione, ma anche di attrarre, come non è riuscito a fare sinora, tutti gli altri partiti alternativi attorno a una piattaforma comune. La vera e propria coalizione anti-troika, la neonata Anti-Austerity Alliance, saldatasi prima delle elezioni al movimento civile People Before Profit, già presente in parlamento con 2 deputati, ottiene con tutta probabilità dai 5 ai 6 seggi. La sinistra così variamente composita potrà dunque contare, con tutta probabilità, su poco meno di 30 deputati, più qualche indipendente che potrebbe unirsi in corso d’opera. Infatti, un altro cartello di comodo uscito non male dalle elezioni è quello degli indipendenti, alcuni dei quali hanno formato la Independent Alliance, che ottiene un paio di deputati o giù di lì. Il grosso dei seggi indipendenti andranno invece a candidati locali totalmente slegati da ogni logica di appartenenza. Tradizionalmente, non assicurano fedeltà ad alcun governo, ma scelgono in base alle circostanze, e portano avanti gli interessi degli elettori della propria circoscrizione. Nelle elezioni passate erano 14, oggi saranno qualcuno in più.

La dissoluzione del Labour apre molti scenari a sinistra, ma pone serie domande sul perché non siano state ascoltate le voci dei padri nobili del partito, primo fra tutti il presidente d’Irlanda Michael D. Higgins, che non si è mai stancato di ripetere come la società, l’economia e la politica non possano essere trattate come entità distanti e incomunicabili. E invece, il Labour del nuovo corso ha chiaramente optato per la scelta liberista di sbandierare risultati economici non tanto legati a riforme attuate, quanto a politiche di austerità dettate dal di fuori, e a una tassazione che anziché colpire le classi agiate, è risultata punitiva soprattutto per i più deboli.

Così facendo, sono state oscurate tante altre questioni chiave care ai laburisti del passato, non ultima quella dei diritti delle donne in tema di aborto.

Puntare tutto sulla carta economica e sui successi governativi si è rivelato un boomerang anche per la componente di centrodestra della coalizione, poiché da tempo viene fatto notare, principalmente da commentatori di destra vicini all’altro grande partito moderato, il Fianna Fáil, come l’indubbia ripresa economica dell’Irlanda sia dovuta, non a chissà quale ricetta messa in campo dalla coalizione, ma ad esempio alla persistenza di bassi tassi d’interesse, e alla caduta del prezzo del petrolio.

Sinn Féin appare consapevole del proprio rinnovato ruolo di principale attore sul palcoscenico delle opposizioni, e per bocca del suo leader Gerry Adams ha sin da subito opposto un secco no all’ipotesi di entrare a far parte di un qualsivoglia governo repubblicano di coalizione con forze di destra: «Non tradiremo il nostro elettorato e tutta quella gente che chiede un governo progressista. Non faremo da stampella a un governo negativo e regressivo vecchio stampo».

Al contempo, anche i due maggiori partiti, entrambi di centrodestra (Fine Gael e Fianna Fáil), non sembrano disposti ad andare a braccetto, soprattutto per paura che una decisione siffatta verrebbe vista malissimo dai rispettivi elettorati – le cui divisioni storiche datano quasi un secolo, e partono dalla guerra civile del 1922-23. Il terrore principale sarebbe di dar vita a un governo con poche chance di durare un’intera legislatura, con la prospettiva di lasciare praterie proprio alla sinistra radicale che attende al varco.

Al momento, l’ipotesi più probabile, per traghettare eventualmente il paese verso elezioni anticipate, appare quella di un governo di minoranza, gestito sempre da Fine Gael e Labour, ma con l’appoggio di alcuni indipendenti e con il beneplacito silenzioso del Fianna Fáil. Nessun cataclisma alle porte, dunque, ma solo tanto gattopardismo in salsa celtica.