Nel 2021, l’avvento della Brexit porterà con sé una nuova era per i rapporti tra Regno Unito e Irlanda, non solo in termini di liberi scambi e liberi movimenti. Circola da giorni, in ambienti repubblicani, un meme in cui un soldato dell’Ira col passamontagna dice, «Babbo Natale ha ricevuto la mia letterina! Gli inglesi fuori dall’Irlanda, e un confine sul mare», e Babbo risponde: «Tiocfaidh Ár Lá, Mo Chara», ovvero «Il nostro giorno verrà, amico mio». In realtà, la frase irlandese rimanda alle parole gridate, nelle disumane celle di Long Kesh, dai compagni di Bobby Sands alla notizia che il loro leader era morto dopo 66 giorni di sciopero della fame, il 5 maggio del 1981.

Il 2021, infatti, segnerà anche un altro importante anniversario, i quarant’anni da quel punto di svolta: dieci giovani uomini di Ira e Inla che si lasciarono morire per ottenere dal governo Thatcher lo status di prigionieri politici. Partì da lì la legittimazione politica di Sinn Féin, oggi primo partito nella Repubblica e secondo nel Nord.

Ma forse, l’anniversario più importante del 2021 sarà il centenario della Partition, la divisione dell’Irlanda tra nord e sud, che concluse la guerra d’indipendenza e che inaugurò una guerra civile tra i contrari al trattato di pace e i favorevoli, i quali, però, lo vedevano come il primo passo verso una riunificazione. E di riunificazione si parla ancora oggi, dopo cento anni, sebbene non sia certo dietro l’angolo. Delle prospettive future, e del significato di tempi ancora incerti abbiamo discusso con tre protagonisti dello scenario culturale irlandese.

Laurence McKeown, ex prigioniero politico il cui sciopero della fame durò ben 70 giorni nel 1981, è oggi uno scrittore, un poeta, un cineasta, e un drammaturgo. Dopo l’esperienza di Long Kesh, ha scelto di continuare la sua battaglia sul piano dell’arte; e nel 2001 il suo film, H3 ha scosso le coscienze: «In carcere la nostra protesta era indossare soltanto delle sudicie coperte, e poi siamo arrivati allo sciopero della fame. In seguito il mio impegno si è rivolto a progetti culturali per i prigionieri dell’Ira. Inizialmente in maniera clandestina. Poi di fuori, con il film e altro, abbiamo cercato di raccontare la storia dal nostro punto di vista, per modificare le immagini stereotipiche del combattenti dell’Ira, e mostrare quale fosse la natura vera della nostra battaglia. Con l’arte abbiamo affrontato di petto l’eredità del conflitto, non solo nei suoi aspetti costituzionali. Abbiamo parlato di povertà, suicidi, discriminazioni. Le nuove generazioni non hanno visto coi loro occhi le brutalità, ed esistono ancora tante divisioni tra repubblicani e unionisti. L’arte e il lavoro accademico devono riflettere un cambiamento».

Secondo Marina Carr, una delle principali drammaturghe irlandesi e docente alla Dublin City University, «in Irlanda l’arte e la politica sono un tutt’uno: io non ho mai scritto con un’agenda politica in mente, ma già mettere mano alla penna è un atto politico; eppure, tendo a rifuggire al pensiero che la parola ‘politica’ possa finire per avere un controllo sulla mia vita, sull’aria che respiro. Sono scettica nei confronti di una qualunque ideologia collettiva, perché finisce per semplificare chi siamo e quel che siamo».

Le opere di Carr sono irlandesi ed europee al contempo, grazie a un profondo legame con il dramma classico e greco in particolare: «Torno sempre ai drammi e ai miti greci per rispondere alle grandi questioni riguardo al luogo misterioso che abitiamo in quest’universo. Sono una connessione ctonia, una banca mnemonica mitocondriale. Sono cronache di sangue, di tribù, di angoscia: racconti di sacrificio e umiliazione. Non ho idea se questa cosa abbia a che fare con l’essere ‘irlandesi’, ma anche la nostra cultura fu sin dagli inizi una cultura orale. Riscriviamo i greci da quando Amergin cantò “sono il vento sul mare, sono l’onda…”».

Che l’Irlanda abbia un passato e un futuro in Europa, è rimarcato da uno dei maggiori scienziati politici irlandesi, Gary Murphy, anche lui professore alla Dublin City University: «La Brexit ha alterato in maniera cruciale gli equilibri. La Ue e l’Irlanda hanno un’unica voce sul confine irlandese, e l’Europa ha un dovere di solidarietà verso chi vuole rimanere al suo interno. Joe Biden negli Usa è un altro alleato importante. Trump si era tirato indietro dai trattati multilaterali, ma l’istinto di Biden è di riportare l’America proprio a quei tavoli. La Gran Bretagna potrebbe ritrovarsi al gelo di un tavolo unilaterale, mentre l’Irlanda siederebbe al centro delle decisioni e con un amico che siede nella Casa Bianca».

Alla domanda se, in questa luce, il centenario della Partition possa portare qualche forma di compensazione morale da parte del Regno Unito, il professor Murphy è sembrato scettico: «Si tratterà di un centenario assai più controverso di quello del 2016, a ricordo della Rivolta del 1916 da cui l’Irlanda ha imboccato la strada per l’indipendenza. La Brexit ha riaperto vecchie ferite, ma non è questo il momento adatto per il governo irlandese di rivisitare gli orrori del passato e chiedere una qualche forma di compensazione».

A Laurence Mckeown abbiamo chiesto, allora, se l’avvento della Brexit e la coincidenza con gli altri due significativi anniversari porterà mai a una riconciliazione: «Non ci sarà alcuna riconciliazione. La Partition è connessa alla discriminazione in uno stato unionista reazionario, nato dalla volontà di non rispettare l’esito di elezioni del 1918, in cui Sinn Féin aveva ottenuto una schiacciante maggioranza. Il male fatto dagli unionisti allora conduce al male fatto in seguito, che è ancora tra noi. Con la Brexit, la Partition è ancora più evidente, e una riconciliazione può avvenire solo quando l’Irlanda sarà unita. Oggi gli unionisti si trovano in una posizione ironica: volevano dei checkpoint al confine tra nord e sud, e si troveranno a controllare i porti per le merci e le persone che arrivano dalla Gran Bretagna».