Commemorare implica inevitabilmente selezionare eventi, attori, idee e conseguenze, e richiede una dialettica tra la memoria e l’oblio che tende a essere mediata dal prisma delle preoccupazioni contemporanee.

C’è sempre il rischio che la commemorazione possa essere usata a fini partigiani, e alcuni storici ci hanno giustamente messo in guardia di fronte ai pericoli che incombono sulla verità storica, per via di una qualunque imputazione retrospettiva di motivazioni, o di un proiettare acritico sul passato di emozioni contemporanee.

Commemorare può anche condurre a una forma di storia pubblica intesa a mettere al sicuro il presente dall’invocazione di un passato “adeguato” o, nella disperazione, dall’evocazione di amnesie che consentano una transizione blanda verso il futuro. Tali approcci sono spesso quelli che mettono meno a disagio chi è al potere.

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Ricordare eticamente mostra diverse facce. Da un lato, implica l’inclusione delle voci dei marginalizzati e di chi non ha diritti nella nostra memoria del passato: una volontà di fare giustizia, ad esempio, rispetto al ruolo essenziale giocato dalle donne e dai lavoratori di Dublino durante la Rivolta di Pasqua.

L’etica della commemorazione prevede anche un’apertura nei confronti delle voci dissonanti e delle storie dell’altro, lo straniero, il nemico di ieri – una tendenza descritta dal filosofo Paul Ricoeur come “ospitalità narrativa”. Nei discorsi che ho tenuto a Nord e a Sud (dell’isola d’Irlanda, ndt), ho usato spesso i concetti suggestivi di Ricoeur, ed enfatizzato l’importanza di evitare false e rassicuranti amnesie.
Il mio obiettivo è di salvaguardare quegli elementi della ricca e variegata tradizione del nazionalismo irlandese che conservano oggi più significato – elementi a cui possiamo ispirarci; elementi il cui potenziale in termini di emancipazione, una volta rinvenuto, può meglio consentirci di ravvivare lo scopo e la gioia di vivere assieme come nazione.

Ovviamente, una critica del nazionalismo irlandese per come si è concretizzato al volgere del secolo scorso, è stata tentata da molti: riposizionando la Rivolta di Pasqua nella cornice della Prima Guerra Mondiale, ma anche nel contesto delle più ampie correnti ideali che scuotevano il mondo – movimenti come il socialismo, il femminismo, ma anche il militarismo, l’imperialismo e le ideologie razziali – e ci sono state svariate rivisitazioni critiche di aspetti della Rivolta e, in particolare, dei miti della redenzione tramite la violenza, che stanno al cuore, non solo del nazionalismo irlandese, ma anche del nazionalismo imperiale.

Credo che quest’ultimo non abbia forse subito una rivisitazione scrupolosa come quella che ha investito l’altro. In realtà, se l’ombra lunga del conflitto in Irlanda del Nord ha portato a esaminare la tradizione repubblicana irlandese della “violenza fisica”, stiamo ancora aspettando una simile critica dell’imperialismo militarista e ispirato alla supremazia. Nel contesto del 1916, quel trionfalismo imperialista è rinvenibile, ad esempio, nella lingua usata durante le campagne di reclutamento del periodo, che evocava mitologia, mascolinità, religione, e rendeva gloria al sangue irlandese che aveva «arrossato ogni continente della terra».

Una delle pietre miliari della tradizione egalitaria irlandese è ovviamente la Serrata generale del 1913, che ha dato coraggio al movimento sindacale in quanto organizzazione i cui membri si sono distinti, tra tutte le formazioni che hanno preso parte alla Rivolta di Pasqua, per il loro impegno nei confronti dell’uguaglianza e delle rivoluzionarie trasformazioni sociali. Fu una straordinaria mescolanza di intellettuali pubblici e attivisti, impegnati negli eventi che hanno circondato la Serrata. Includeva persone con posizioni divergenti su alcune questioni e su discorsi di tattica, ad esempio George Bernard Shaw e James Connolly; ma furono uniti nel fare appello alla giustizia: un’unione più forte di tutto quel che li divideva.

Fu la loro risposta alla Serrata ad avvicinare James Connolly a Patrick Pearse (i due maggiori leader della rivolta, ndt), come documentano i riferimenti di Pearse nelle lettere di quel periodo, in cui egli accenna alle condizioni terribili dei quartieri poveri di Dublino. Questi avvicinamenti emergono nelle dichiarazioni sull’uguaglianza inserite nella Proclamazione della Repubblica, che Patrick Pearse ha letto sotto il porticato del General Post Office, il lunedì 24 aprile del 1916. Mi permetto di citare quelle frasi che ci accompagnano e sono forse la promessa più significativa consegnataci in eredità dopo un secolo, dagli uomini e le donne del 1916: «La Repubblica garantisce la libertà civile e religiosa, eguali diritti ed eguali opportunità per tutti i suoi cittadini, e dichiara il suo impegno a perseguire la felicità e la prosperità della nazione intera e di tutte le sue parti, avendo a cuore in maniera eguale tutti i figli della nazione…».

Rivolgendosi agli uomini e alle donne irlandesi, in anni in cui le donne nella maggior parte del mondo non avevano ancora ottenuto il diritto di voto, la Proclamazione fu, per quel tempo, un documento eccezionale. Non la descrizione dello status quo della società irlandese, ma una visione convincente di quel che avrebbe potuto essere.

Il Programma Democratico del primo parlamento questo recitava: «La prova lampante di una possibilità venutasi a creare alla nascita di uno Stato, una visione fortemente egalitaria, entusiasta, che asseriva una profonda umanità, e legata a un movimento internazionale teso a un gran cambiamento verso una versione socialista della politica, dell’economia e della società…». Il programma democratico alludeva alla possibilità di affrontare le ingiustizie che avevano motivato i padri fondatori del Movimento dei lavoratori – ovvero, eliminare la povertà, l’ineguaglianza, lo sfruttamento dei lavoratori più deboli; di mettere in prima fila i diritti delle donne e dei bambini; affrontare l’inadeguatezza dell’accesso all’istruzione e alla sanità, tra le altre cose.

Tuttavia, l’Irish Republican Brotherhood non aderì a questo programma, e ci furono anche personaggi dell’Ira che tentarono di metterlo a tacere.

Credo che la storiografia irlandese, con qualche notevole eccezione, abbia preso di petto in maniera insufficiente il modo in cui quegli sviluppi futuri siano stati alimentati dal divaricarsi delle differenze nell’Irlanda alla fine del ventesimo secolo; soprattutto le differenze tra un proletariato urbano impoverito e un’Irlanda rurale da cui in così tanti, tra chi era stato marginalizzato, hanno dovuto per forza di cose emigrare.

Al tempo della Rivolta di Pasqua, la classe dei proprietari terrieri locali, molti dei quali si definivano nazionalisti, aveva finito per rimpiazzare i proprietari terrieri anglo-irlandesi. La collusione tra le idee di classe, proprietà e rispettabilità portata avanti da quella nuova classe di padroni locali ha modellato l’ideologia che avrebbe avuto un’enorme influenza nella vita politica irlandese degli anni ’20 e ’30. E sebbene il nazionalismo irlandese vantasse dimensioni socialmente progressiste – come ad esempio nel movimento per il suffragio femminile, negli ambienti della presenza proletaria, e in quel fiorire di creatività che ha caratterizzato parte del Revival culturale – una potente minoranza dai tratti più conservatrici al suo interno è riuscita a smussare la richiesta di eguaglianza espressa sia nella Proclamazione del 1916, che nel Programma Democratico del Primo Parlamento.

Non dovremmo dimenticare, però, che per un breve periodo dopo la Rivolta, uomini e donne comuni provarono a rendere il principio della proprietà pubblica una realtà tangibile. Tra il 1918 e il 1923, in Irlanda hanno avuto luogo cinque scioperi generali e diciotto scioperi locali. Gli operai hanno preso a gestire più di ottanta posti di lavoro e creato dei soviet nella fabbrica Cleeves a Limerick, nelle miniere circostanti di Castlecomer, e alla fonderia di Drogheda. È stato soprattutto l’Ovest a risvegliarsi. È spuntata una rete di tribunali popolari eletti, e di arbitrati locali, in grado a volte di stabilire i termini della redistribuzione delle terre. Ma tali mosse audaci hanno fatto sì che i proprietari terrieri più ricchi anziché a Westminster, facessero appello allo Sinn Féin per porre fine a un simile «bolscevismo agrario».

Come ricordare dunque il 1916? Viene spesso sollevata, durante le tante commemorazioni odierne, la questione se, nella nostra indipendenza politica abbiamo reso onore o meno agli ideali articolati durante quegli eventi fondativi della Repubblica Irlandese. Come ho suggerito, si tratta di una domanda inadeguata. Non dovremmo mai dimenticare che, agli albori della nostra indipendenza, la società irlandese nella sua interezza non era nei fatti una società eguale, né ideologicamente incline all’egalitarismo. Era allora, e rimane oggi, una sfida, il fatto di creare una società che permetta a tutti i suoi figli, donne e uomini, di prosperare nell’eguaglianza.

Non siamo passati dall’eguaglianza all’ineguaglianza: un’ineguaglianza che oggi possiamo descrivere come sempre più profonda. I primi anni del nostro Stato non hanno rappresentato un idillio di diritti e libertà – ma studiare quel tempo rivoluzionario ci pone di fronte al tempo dell’idealismo e della speranza, la promessa di quel che la nostra nazione deve ancora diventare. Decliniamola in positivo: dobbiamo ancora gioire del fatto che l’uguaglianza divenga il tema centrale della nostra Repubblica.

Nel porci quest’obiettivo, ci viene anche richiesto, credo, di rivisitare la nostra concezione di quel che costituisce una vera Repubblica – una Repubblica che abbia a cuore la solidarietà, la comunità e lo spazio del pubblico; una Repubblica che riconosca nello Stato una responsabilità condivisa, e sappia anche intravedere il suo ruolo vitale nel realizzare il bene comune di tutti i suoi cittadini.

Rianimiamo le migliori promesse del 1916, affinché le generazioni future possano conoscere la libertà nel senso più pieno del termine – la libertà dalla povertà, dalla violenza e dall’insicurezza: la libertà dalla paura.

(traduzione di Enrico Terrinoni)