Pur tenendosi fuori da ogni schieramento letterario, Irina Ermakova ha debuttato, in tempi di perestrojka, con una poesia spiritata, edenica e sciamanica, tessuta di ancestrali memorie; ma anche densissima di riferimenti culturali, echi di tutti i mondi attraverso i quali la sua coscienza poetica è transitata, dalla classicità all’oggi, da Fet a Brodskij, passando per Bashō e Heine.

La silloge dei suoi versi raccolti per Einaudi da Alessandro Niero, Lo specchio di bronzo (pp. 237, € 15,50) si apre su una nota di vigoroso lamento, capace di evocare tutto il dolore del momento storico attuale: «Il tempo si è infiammato, distorto./ Si è deformato il corpo della cara terra» – «E fischia, turbinando, un’aria nera:/ la trasfigurazione del mondo ha inizio».

Fedele al mandato dei poeti russi di ogni tempo, Ermakova tinge di impeto civico la propria voce nei versi in cui deplora la sostanza nuovamente barbara dei suoi tempi: quando ricorda Groznyj e la Crimea del 2014, o nasconde tra le pieghe dei suoi componimenti specifiche allusioni politiche (ben lumeggiate dal curatore nell’apparato di note). E ferisce il cuore con una galleria di proscritti – dolenti medaglioni di esseri sciagurati o derelitti, guardati con crudo eppure pietoso occhio post-realista.

Ma la sua è anche una poesia che si abbevera al sogno e al presagio, e stempera la propria intensità in un passaggio di nuvole o racconta la grazia agrodolce di una giornata di primavera colta alle porte di Mosca («È ricolmo di miele veleno argilla benedetta/ L’alveare del Signore.»).

Quando dà corso alla sua vena panica, o accosta l’orecchio a civiltà estinte, cullandosi nel mulinello dei millenni e dei continenti, tocca momenti di autentica, vibrante sospensione. Anche i temi amorosi o conviviali riposano allora in volute spazio-temporali fluide, depositate in tragitti virtuali (è il caso di Viaggio sentimentale).

Stupiscono per il loro nitore le riscritture omeriche, avvicinate – per lampi rapinosi o dispiegate prospettive – all’oggi di conversari intimistici. Come nei versi in cui una Penelope sotto specie di chiocciola descrive il distacco dall’amato e ne prefigura il ritorno; o quelli in cui viene immaginato un Ulisse in carne e ossa da aspettare davanti a un caffè bollente («Notte tra il sei e il sette. Agosto. Itaca è Mosca»); o, ancora, nell’offerta dell’acre pozione che Penelope distilla per lui in Ninna-nanna per Odisseo.

Nel suo incessante dialogo con la morte – sempre in bilico su dipartite immaginate o reali, sue o di altri, tra fantasie di dissociazione dell’anima dal corpo e condivisioni tra i vivi e i morti – c’è posto anche per un’auto-ironica, surreale punta di invidia per i poeti trapassati, di cui pregusta lo status, chiedendosi se non sia da preferirsi al tormento della contemporaneità: «bello essere un poeta estinto starsene stipato/ in un silenzio senza crucci su una mensola senza fine/ e non dover leggere a nessuno se stessi a turno in cerchio».

E particolarmente le si adatta la forma conclusa del tanka giapponese: il curatore traduce 29 dei complessivi 108 componimenti da lei realizzati (spacciandoli per trasposizioni di una fantomatica poetessa vissuta nel XII secolo). Una forma che aspira a rendere dicibile l’ineffabile, catturando la pienezza delle emozioni in bozzetti succinti dai tratti subitanei e impalpabili, appuntati su uno sfondo da Sol Levante. Bracieri e sete, pleniluni e bambù concorrono al frugale incanto di quei moti impercettibili, soprattutto laddove viene intessuto un dialogo a distanza con l’altro, con l’amato: «Una gelida luna/ gli rischiara la strada/ oltre la mia porta./ Getterò il cuore ai suoi piedi – / che inciampi!».

Impensabile senza il retaggio classico, la poesia di Ermakova è anche indecifrabile senza i rimandi al Novecento di Mandel’štam, Chodasevič, Achmatova, Pasternak. Quest’ultimo, soprattutto, è interiorizzato ben al di là dei debiti dichiarati: avvertiamo l’onnipresenza di Pasternak ogni volta che Ermakova risfoglia il libro della natura col suo stesso sguardo fraterno, per acclamarne i fasti, gli scarti, le accensioni e gli strepiti; ogni volta che «scricchiolano gli scalmi», o l’anima viene accostata (magari con un trattino) a qualcosa di decisamente insolito, come nel caso dell’anima-ortica o dell’anima querula, immagini che prolungano, aggiornandole, le visualizzazioni dell’autore di Živago sull’anima-cinerario chiamata a contenere la necropoli che a un certo punto della sua vita lo circonda.

Il traduttore ricrea il mondo composito allestito da Ermakova con una sintonia capace di innumerevoli trovate, impreziosite da scoppiettanti allitterazioni tra loro incatenate, o risolte con cascate di sdrucciole che vanno a gremire strofe intere (come in Pan),  sempre aggirando il rischio di banalizzazioni. A volte un’unica parola russa (letal’nost’) si può agguantare solo triplicandola («letale indole volatile»), altre volte è necessario al contrario asciugare drasticamente.

È una silloge, questa, che pesca – sulle orme dell’autrice stessa – in più acque: in quelle tempestose degli scenari politici o in quelle scintillanti di miti sempiterni; negli specchi imperturbabili dei tanka o nelle onde appena increspate dei territori dell’infanzia. Dissodata dai grandi che l’hanno preceduta, illuminata a tratti da «folgorazioni epifaniche», la  poesia di Irina Ermakova trattiene in sé qualcosa di primigenio, in cui – Dio «vede se le metafore mancano».