«Il problema è che abbiamo una classe imprenditoriale molto al di sotto delle aspettative». Mario Bravi, presidente dell’Ires Umbria, l’istituto di ricerca della Cgil, ha davanti tavole e tavole di dati. E una visione d’insieme di come stanno andando le cose. «In questa regione abbiamo una presenza di multinazionali che in provincia di Terni è seconda solo a quella di Milano, eppure spesso questi grandi attori su questo territorio si comportano con un atteggiamento di rapina. Poi ci sono una miriade di imprese di subfornitura che innovano assai poco e pagano salari bassi. Infine c’è pure chi ci marcia». Fa il confronto tra il pre e il post, Bravi, prendendo a riferimento quel 2008, anno di inizio della crisi, che pare assomigliare sempre più all’anno 0. «Prima della crisi l’Umbria si caratterizzava per tre peculiarità rispetto al resto d’Italia; una negativa e due positive. C’era un tasso di occupazione più alto della media nazionale, un indice di disuguaglianza più basso, grazie alle politiche messe in atto dai governi locali di sinistra, e c’erano salari più bassi. Oggi siamo rimasti solo coi salari più bassi: l’indice di disuguaglianza è aumentato e l’occupazione si è andata a fare benedire». La cosa, per Bravi, ha un risvolto ulteriore: «Questa è la smentita più palese di quelle teorie liberiste secondo cui bassi salari aiuterebbero la crescita. La vicenda umbra testimonia come le retribuzioni contenute che c’erano già prima della crisi non hanno né aiutato la crescita né mitigato gli effetti della crisi».

E poi ci sono ulteriori risvolti. Perché sì, il Pil complessivo è calato, ma il Pil pro capite è andato anche peggio, perché la popolazione è diminuita. «Significa che le persone, le famiglie si sono impoverite ancora di più, non a caso ci troviamo oggi con 90 mila umbri (su 900 mila residenti) che navigano tra una situazione di povertà assoluta e povertà relativa. Stiamo molto peggio rispetto alla media italiana».

E poi c’è il problema delle dimensioni. «Spesso gli imprenditori si riempiono la bocca con la crescita del numero di imprese. Bene, faccio un esempio: tra il 1997 e il 2007, gli anni della ricostruzione post terremoto, quindi con l’aiuto di finanziamenti pubblici, le imprese edili crebbero da 1.700 a 3.100. Erano tutti contenti. Faccio però notare che mentre nel 1997 il numero medio di occupati per impresa era di 5; dopo dieci anni era sceso a 3. Ciò, nonostante fossimo reduci da un periodo in cui lo sviluppo dell’edilizia era stato trainato. Questo vuol dire che c’è una criticità del tessuto imprenditoriale che andrebbe affrontata». E la politica? Il governo regionale? Cosa possono fare in un quadro in cui le multinazionali sono libere di andare e venire a loro piacimento e le imprese vengono vendute o svendute in un battibaleno? «Mi rendo conto che le armi sono spuntate – dice Bravi –. Quello che a me non piace del governo regionale è una certa tendenza a negare l’evidenza. No: la crisi c’è ed è stata pesante, in Umbria più che altrove. E quello che potrebbe fare il governo regionale, secondo me, è un’operazione di selezione. Incentivare le aziende sane e innovative e lasciare al loro destino gli imprenditori che non si dimostrano all’altezza. Invece, purtroppo, mi pare che questo coraggio manchi e si continui a seguire la strada dei contribuiti a pioggia. Abbiamo fondi europei anche più cospicui rispetto ad altre regioni, mi rendo conto che non possono essere considerati la panacea. Però qualcosa in più si potrebbe fare».