Del Pd era stata pioniera: entrata nel 2007 su chiamata diretta di Walter Veltroni (che cercava disperatamente volti nuovi), se n’era andata nel 2008 sbattendo la porta, «dopo un anno in cui non sono stata consultata mai, neanche per un parere». Era furiosa Irene Tinagli, ora vicesegretaria dem dopo essere passata per Italia Futura di Montezemolo, Scelta civica di Monti, il Pd di Renzi e «Siamo europei» di Calenda, sempre alla ricerca del giusto tasso di «riformismo e innovazione».

Nel 2008 era già delusa perché il Pd, ohibò, faceva opposizione al ministro dell’Istruzione e dell’Università Gelmini e con gli argomenti «più scontati e deboli: le proteste contro i tagli, la retorica del precariato», si legge nella sua missiva d’addio. «E’ questa la linea nuova e riformista del Pd?». Giammai. «La gente ci giudicherà per quello che abbiamo fatto».

L’economista però sta stretta come semplice docente alla Carlos III di Madrid. Per (sua) fortuna nel 2009 nasce il think tank Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo, dove le «competenze tecniche» così bistrattate nel Pd sono assai più valorizzate. Montezemolo nel 2012, quando Monti non aveva ancora deciso di candidarsi, arriva a pensare di proporla come candidato premier della sua lista in gestazione. Stesso pensiero viene qualche anno dopo a Calenda (che di Italia Futura era il coordinatore): «Irene sarebbe un’ottima candidata premier. Io le farei volentieri da spalla».

Alla fine nel 2013 viene eletta deputata semplice di Scelta civica, insieme a imprenditori come Ilaria Borletti Buitoni, Luciano Cimmino, Alberto Bombassei, Paolo Vitelli: la foto di gruppo del partito generava un pil superiore a un paese medio dell’Africa.

L’avventura di Monti però va subito in mille pezzi. Così lei, insieme ad altri operaisti come Pietro Ichino e Linda Lanzillotta, si tuffa nel Pd di Renzi, che «ha assorbito il centro della società prima ancora che quello politico».

Nel 2017, nei giorni della scissione di Bersani, nei salotti tv difendeva Matteo a spada tratta: «Renzi è flessibile, in questi mesi ha dato tutto quello che poteva alle minoranze, Bersani deve rendersi conto che non siamo all’asilo Mariuccia, in gioco c’è molto di più del narcisismo o dell’amor proprio». Il fervore non bastò, nel 2018 il fiorentino rottamò anche lei: niente ricandidatura: «Non mi ha neppure chiamata».

Nel 2019 la candidatura europea, con l’amico Calenda nelle liste dem. Nel volantino distribuito nei comizi tra Lombardia, Piemonte e Liguria, accanto al simbolo del Pd, si legge che è stata deputata tra il 2013 e il 2018, ma non con quale partito. Su Monti si abbatte così la damnatio memoriae.

Dopo pochi mesi Calenda se ne va e fonda Azione, lei non lo segue e cala il gelo. Nel frattempo, a differenza di quasi tutti i renziani, ha mantenuto buoni rapporti con il collega professore Letta, entrando nel board della sua scuola di politiche. La sua mossa più azzeccata. E così Irene, l’eterna promessa non mantenuta, la riserva di lusso, approda finalmente alla serie A della politica.