È un paese blindato quello che decine di migliaia di giovani iracheni sfidano da tre giorni: copertoni bruciati, assalti a uffici pubblici, slogan che riprendono quelli simbolo delle primavere arabe del 2011, da cui l’Iraq restò immune, preda dei suoi fantasmi. Che sono ancora tutti lì: mancata ricostruzione, disoccupazione radicata, corruzione strutturale, servizi assenti.

Contro i limiti persistenti del disfunzionale Stato iracheno da tre giorni esplodono manifestazioni a Baghdad e da Bassora a Nassiriya, il sud ricchissimo di petrolio che di quella ricchezza non è mai stato partecipe né sotto forma di lavoro né di servizi.

Le proteste attraversano il paese da martedì e con la rabbia sale il numero di vittime: almeno 26 manifestanti e due poliziotti uccisi, un migliaio i feriti, mentre le autorità governative centrali e regionali impongono coprifuoco senza data di scadenza e blocchi di internet.

Ieri il primo ministro Adel Abdul Mahdi – al potere da un anno esatto, dopo mesi di stallo post-elezioni – ha blindato Baghdad: vietato il movimento di veicoli e individui (poche le eccezioni: ambulanze, pellegrini, dipendenti dei dipartimenti di acqua ed elettricità), mentre la polizia continuava a tentare di disperdere le proteste con cannoni ad acqua, lacrimogeni e proiettili.

Proteste spontanee, che non seguono l’agenda di alcun partito – seppur c’è chi (il leader religioso sciita Moqtada al-Sadr) provi a cavalcarle, invitando allo sciopero generale – e che hanno in prima linea i giovani, la stragrande maggioranza della popolazione e quella che più di altri soffre la mancanza di lavoro e di opportunità.

Il coprifuoco ieri è servito a poco: manifestazioni ci sono comunque state nelle periferie mentre la centralissima Tahrir Square, cuore della mobilitazione, è stata la destinazione di tanti manifestanti che hanno provato a dormire lì per non perderne il controllo.

Coprifuoco anche a Najaf, Nassiriya, Amarah, Babilonia e internet fuori uso nel 75% del paese, secondo NetBlocks, ong che monitora i blocchi della rete nel mondo.

«Il popolo vuole la caduta del regime», si sente gridare tra i manifestanti, richiamo palese alle rivolte arabe di otto anni fa. «Sacrificheremo le nostre anime e il nostro sangue per te, Iraq», le urla che salgono tra lo sventolio delle bandiere irachene, mai di partito.

Slogan già intonati negli anni passati, quando proteste importanti seppur limitate nel tempo erano esplose nella capitale e nel sud sciita: nel 2016 guidate dal movimento sadrista con il conseguente assalto alla Zona Verde e l’irruzione in parlamento a Baghdad; e nelle estati roventi del 2018 e 2019 a Bassora, dove la rabbia popolare – scatenata da blackout elettrici, siccità e disoccupazione – aveva preso di mira le compagnie petrolifere straniere, accusate di non assumere forza lavoro locale e di esportare il greggio invece di metterlo a disposizione di comunità stremate dalla carenza di servizi.

E se il governo pare incapace di dare risposte al di là della mera repressione, le prime reazioni arrivano da fuori: la Ue chiede moderazione alle forze armate, l’Iran chiude due valichi di confine con l’Iraq e gli Stati uniti invitano alla calma e minacciano «di difendersi» nel caso di «attacchi al personale».

Sullo sfondo di proteste inevitabili in un paese mai ricostruito fisicamente ed economicamente dopo l’invasione Usa e l’occupazione da parte dell’Isis, sta il conflitto tra Iran e Usa: le autorità irachene, deboli e dipendenti tanto da Teheran quanto da Washington, non nascondono il timore di vedere l’Iraq terreno di scontro altrui.