A Baghdad ogni poche ore salta la luce. Qualche secondo di blackout, poi le lampadine si riaccendono, riparte il wifi, ritorna il sibilo dei condizionatori. Succede di continuo, nessuno sembra farci caso. Si continua a parlare, mangiare, leggere.

Fuori, lungo le stradine che intersecano le vie principali, nei vicoli, in città vecchia, i lampioni sono avvolti dai fili della corrente. Dalle case i fili scendono, si insinuano, si attorcigliano intorno a ogni appiglio possibile.

RICORDANO I CAMPI PROFUGHI palestinesi in Cisgiordania o in Libano. Ma siamo nella capitale del secondo paese dell’Opec per produzione di petrolio dopo l’Arabia saudita (300mila barili al giorno) e quinto al mondo per riserve (145 miliardi di barili, il 17% del Medio Oriente e l’8% del mondo).

E poi c’è il gas naturale: 132mila miliardi di metri cubi alla fine del 2020, dodicesimo al mondo. Il 70%, secondo il ministero iracheno del petrolio, è legato alla produzione di greggio: ovvero è il gas che fuoriesce dai giacimenti di petrolio che bruciano. Immagini comuni a Bassora, la città dei pozzi petroliferi: fiamme che illuminano la notte e gas al vento.

È uno spreco enorme di energia e un danno all’ambiente: a livello globale, secondo la Banca mondiale, la combustione del gas legata alla produzione di petrolio provoca ogni anno l’emissione nell’atmosfera di 400 milioni di tonnellate di Co2.

I NUMERI DUNQUE DICONO che l’Iraq ha riserve di gas naturale pari a 1.947 volte il consumo annuo interno. Eppure l’elettricità salta continuamente e ogni casa, ristorante, hotel, negozio ha un generatore accesso 24 ore su 24. «Ogni giorno mandiamo in fumo milioni di metri cubi di gas – ci spiega Ghailan, ingegnere -. Quel gas derivante dalla produzione del greggio non viene raccolto, ma sprecato. E poi importiamo energia dall’Iran per mandare avanti il paese».

Una comparazione la fa il Washington Institute for Near East Policy: l’Iraq spreca una quantità di gas naturale dieci volte maggiore a quella che importa. Se ne vanno in fumo 2,5 miliardi di dollari l’anno, mentre nelle città del sud – da Bassora a Nassiriya – le estati sono attraversate dalle proteste dei residenti che non hanno elettricità ma pozzi di petrolio sull’uscio di casa.

Immagini da Baghdad

Secondo il ministero del petrolio iracheno in campo ci sono progetti della Basra Gas Company per iniziare a produrre gas naturale a Bassora, a Maysan, a Dhi Qar. Sul piatto c’erano anche investimenti internazionali di compagnie come Exxon, Chevron e Total, le monopoliste del mercato iracheno, ma i piani sarebbero saltati per «ragioni di sicurezza». Senza quei soldi Baghdad non riuscirebbe a realizzare la costruzione di impianti di ripulitura del gas.

SECONDO ALCUNI, PERÒ, le ragioni dello spreco non sono finanziarie. Sono politiche: le interferenze esterne e l’obbligo non scritto a non usare quel gas. Pressioni che giungerebbero dal vicino Iran, principale venditore, ma anche dalla Turchia che con l’Iraq ha un interscambio commerciale importante come la sua influenza.

«In Iraq un quarto delle spese di una famiglia vanno per pagare le bollette elettriche – ci spiega Falan al Wan della Federation of Workers Council and Union -. Paghiamo due volte: le bollette trimestrali per sostenere le spese energetiche degli uffici pubblici e poi le bollette dei consumi privati, ovvero l’elettricità che ci arriva dall’Iran».

«NEI SOBBORGHI e nei quartieri più poveri in tanti si attaccano illegalmente all’elettricità perché è una spesa spesso insostenibile per chi guadagna poco e non esistono sussidi governativi per i poveri. E pensare che fino al 1991 eravamo chiamati il paese del surplus». L’Iraq produceva, all’epoca, molto più di quel che consumava e il surplus lo esportava. Dopo la prima guerra del Golfo e le sanzioni internazionali, l’export si è fermato.

«Dagli impianti iraniani compriamo gas per un miliardo di dollari l’anno e per ore limitate – continua al Wan -. Il resto dei bisogni lo copriamo con i generatori. Intanto a Bassora, Karbala, Nassiriya buttiamo via il nostro gas. Lo dice il governo: dal 2003 al 2018 l’Iraq ha speso 42 miliardi di dollari per l’energia. Senza dimenticare il petrolio: per i consumi interni ci teniamo un quinto di quel che produciamo, il resto va in esportazione. Ma i profitti del greggio non sono pubblici, non entrano nel bilancio annuale. Per cui non sappiamo dove vanno a finire quei soldi».

«Prima del 2003 – conclude Ghailan – l’Iraq aveva industrie chimiche, energetiche, farmaceutiche, metallurgiche. Non importavamo quasi nulla. Era un’economia semi-socialista, lo Stato controllava tutto, le fabbriche erano pubbliche. Ora abbiamo adottato un modello diverso, quello liberista. E il sistema è collassato». Ci salutiamo e va via la luce.

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