Il mese scorso, in occasione della giornata mondiale del rifugiato, il premier iracheno Mustafa Al Khadimi e i leader curdi avevano assicurato l’avvio in tempi stretti di politiche concrete per riportare a casa gli sfollati interni (almeno 800mila) e per assistere i profughi, gran parte dei quali siriani (250mila) e tra questi anche migliaia di palestinesi. Civili costretti negli anni passati ad abbandonare città e villaggi divenuti terreno di combattimenti tra truppe governative e miliziani dello Stato islamico, sottoposti a pesanti bombardamenti aerei. In particolare Al Khadimi, visitando Ninive, aveva lasciato intendere di avere in tasca un piano per sfollati e profughi. Ma le buone intenzioni sono rimaste parole e dal governo ora arrivano segnali poco inoraggianti. Non rassicurano più di tanto i propositi annunciati due giorni fa dal ministro dell’immigrazione e dello sfollamento Evan Faek Jabro volti a favorire il rientro nei centri di origine degli sfollati nel campo di Akda, congelato nei mesi scorsi a causa dell’emergenza Covid-19. E la crisi economica aggravata grave dalla pandemia rende tutto più difficile.

 

Gli sfollati fuggiti nel Kurdistan per un 40% vivono in dieci campi: cinque a Duhok, quattro a Erbil e uno nella provincia di Sulaimani, gli altri sono ospitati in varie comunità. Faek Jabro, il 24 giugno, ha annunciato la chiusura dei campi nella provincia occidentale di Anbar visto che la maggior parte degli sfollati in quel territorio era tornata casa dopo quasi sei anni. Ma non tutti gli sfollati hanno una abitazione dove far ritorno – le distruzioni materiali causate dalla guerra all’Isis sono enormi – e 1.706 famiglie rimangono nella provincia di Anbar perché non sanno dove andare, non hanno risorse e perché temono l’instabilità che regna nei luoghi di origine. La comunità internazionale peraltro concentra la maggior parte dei suoi sforzi sulla ricostruzione nell’Anbar e a Mosul (l’ex “capitale” dell’Isis), trascurando Ninive, Kirkuk e Diyala dove gli abitanti vivono di stenti.

 

Uno degli ostacoli più seri alla soluzione del problema degli sfollati interni – da qualche tempo cavallo di battaglia di vari esponenti politici in vista delle future elezioni – resta la presenza  tra di essi di famiglie di miliziani veri o presunti dello Stato islamico con tante donne rimaste vedove e bambini orfani di padre. Il rientro di questi sfollati ai villaggi e alle città di origine è visto come una minaccia: gli abitanti li considerano fiancheggiatori del “nuovo” Isis che si sta riorganizzando. Contro i proclami di vittoria delle autorità locali e degli Stati uniti, in varie province irachene, in particolare a Kirkuk e Diyala, si nascondono cellule ben armate e attive del Califfato che compiono attacchi e attentati quasi quotidiani. Per combatterle le Hashd al Shaabi (le Forze di mobilitazione popolare a maggioranza sciita) usano il pugno di ferro. E a pagare il conto, molto spesso, sono i civili.