Nuri al Maliki, il «nuovo dittatore» secondo i suoi oppositori, spera oggi nella rielezione per il terzo mandato a capo del frantumato stato iracheno. A rieleggerlo dovrà però essere il parlamento formato da 328 deputati che uscirà oggi dal voto a cui sono chiamati 22 milioni di iracheni.

L’impresa non è impossibile ma certo non per merito del premier uscente che ha guidato per due mandati, dal 2006, un paese in cui dilagano corruzione e discriminazioni etnico-religiose. I sunniti accusano il premier di averli esclusi dal potere politico, economico (rendita petrolifera di una produzione salita a 3,5 milioni di barili al giorno) e militare. Dalla fine del 2012 e per tutto il 2013 i sunniti hanno organizzato tali proteste nella provincia di Anbar da renderla ingovernabile. La violenta repressione dopo l’onda delle rivolte arabe e la condanna per terrorismo del vicepresidente della repubblica Tariq al Hashimi e del ministro delle finanze Rafi al Issawi, autorevoli esponenti sunniti, hanno reso la situazione sempre più incandescente.

I kurdi, che si sono ritagliati un proprio stato dentro lo stato, sono una spina nel fianco del potere di Baghdad. E il Kurdistan non è più il «mediatore» tra le componenti irachene: è mutato l’equilibrio politico al suo interno con la conferma della supremazia del Partito democratico del Kurdistan, la sconfitta dell’Unione patriottica e l’ascesa di Goran (il partito del Cambiamento).

L’instabilità torna la nota dolente dell’Iraq, riportato ai primi posti nelle statistiche dei morti quotidiani, soprattutto dopo la partenza degli americani nel 2011. Dalle 3.200 vittime civili del 2012, si è passati alle 8.800 del 2013 e quest’anno sono già 3.000. E i jihadisti non risparmiano più nemmeno il Kurdistan. Presi di mira anche i seggi elettorali, da Baghdad a Kirkuk, con molte vittime.

Eppure forse al Maliki riuscirà a mantenere il potere perché il blocco sciita di cui fa parte si presenta alle urne più compatto del frammentato fronte sunnita. Anche se Nuri al Maliki non ha più la forza che aveva al primo mandato essendosi inimicato due partiti sciiti, quello di Muqtada al Sadr e quello di Hakim, che appoggiavano il governo. Sebbene Muqtada al Sadr abbia sorpreso tutti annunciando il suo ritiro dalla politica, il movimento sadrista (il più radicale nello schieramento religioso sciita) continua a godere di ampio sostegno negli strati più poveri della popolazione.

Più frammentato è il fronte sunnita, dopo il collasso della coalizione laica Iraqiya che aveva vinto le scorse elezioni. Al Mutahidoun – la formazione del portavoce del parlamento Osama al Nujaifi – su posizioni nazionaliste anti-settarie è considerato il primo partito arabo sunnita. La novità è invece il nuovo partito Karama (dignità) che ha appoggiato le manifestazioni dello scorso anno contro il premier Maliki. Ma la provincia di al Anbar (sunnita, a ovest) è anche quella più direttamente investita dall’internazionalizzazione del conflitto siriano: il gruppo legato ad al Qaeda, Stato islamico dell’Iraq e del Levante – che vuole costruire un califfato che comprenda la Grande Siria – combatte sia in Siria che in Iraq, dove, tra l’altro, controlla Falluja. Tra Iraq e Siria quasi non esistono più frontiere: il 27 aprile un convoglio dell’Isil diretto in Iraq per rifornimenti è stato distrutto da elicotteri iracheni quando si trovava ancora in Siria nella zona di Wadi Fawaq. Sull’altro fronte filo-Assad, è invece schierato il premier di Baghdad alleato di Tehran che permette il passaggio di uomini e mezzi per Damasco. Con irritazione delle monarchie del Golfo e degli Stati uniti.

Nella sfida elettorale, particolarmente attive le donne (2.600 candidate, il 29%) che hanno diritto a una quota del 25% in parlamento. Si spera che riescano a impedire l’approvazione della legge varata dal governo che vuole ridurre l’età prevista per il matrimonio delle ragazze da 18 a 9 anni! Le associazioni di donne sono preoccupate: la legge potrebbe dare impulso a una tendenza già in atto a causa della povertà (nonostante l’ingente ricchezza petrolifera del paese) che induce le famiglie a vendere le figlie per ottenere la dote, e che oltre ad abbassare l’età da matrimonio, affida l’esclusiva tutela delle bambine dai due anni in su al padre e legalizza lo stupro in famiglia. La legge barbara è stata proposta dal ministro della giustizia Hassan al Shimari, del partito Fathila (della Virtù) alleato di al Maliki. Se il premier dovesse confermarsi per le donne, e non solo, sarebbe una catastrofe.