La battaglia per il controllo dell’Iraq si sposta a Nord: ieri lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante e le truppe governative sono state protagoniste di duri scontri per il controllo della città sciita e turkmena di Tal Afar, nella provincia di Ninawa, tra Mosul – già occupata dagli islamisti – e il confine con la Siria. Abdulal Abbas, ufficiale locale, ha raccontato di «martiri, feriti, caos e rifugiati»: la città, sebbene i generali iracheni lo neghino, sarebbe caduta sotto il controllo qaedista e, mentre l’aviazione irachena bombarda dall’alto, sarebbero già decine di migliaia i civili in fuga.

La conquista islamista di Tal Afar potrebbe segnare una svolta: corridoio strategico, permetterebbe all’Isil di radicare la propria presenza nelle 4 province a nord (Ninawa, Salah-a-Din, Anbar e Diyala) e spaccherebbe il paese in tre: curdi a nord, qaedisti sunniti a nord ovest e nord est e autorità irachene a sud. Questo lo scenario finale dell’Iraq post-Saddam? Un paese difficilmente ricompattabile, con ciò che resta dello Stato iracheno arroccato a difesa di Baghdad (da giorni teatro di attentati). Nelle ultime ore, il governo iracheno avrebbe riassunto il controllo di Al Ishaqi, al-Mutasin e Al Dhuluiya, provincia di Salah-a-din, fa sapere il governatore Abid Kalaf, che ha riportato di accordi tra Baghdad e le milizie tribali.

E mentre l’esecutivo è impegnato nel reclutamento di civili sciiti nelle file delle forze di sicurezza, l’esercito è allo sbando. A monte la decisione degli Usa di smantellare il sistema militare iracheno nell’obiettivo di ripulirlo da baathisti e fedeli di Saddam Hussein. Oggi quello che resta dell’esercito è target dei qaedisti: video online mostrano macabre immagini di esecuzioni; sarebbero 1.700 i soldati uccisi in una settimana.

A rafforzarsi sul campo non è solo la presenza qaedista, foraggiata dal denaro del Golfo e dalla guerra civile siriana, ma anche la regione autonoma del Kurdistan, da decenni impegnata in un braccio di ferro con Baghdad. Grazie all’intervento armato dei peshmerga, i curdi stanno assumendo il controllo delle aree più ricche di petrolio, Kirkuk in testa. Gli islamisti non sembrano voler intervenire – c’è chi parla di accordi segreti tra le due compagini per la divisione del nord Iraq – e il Kurdistan ne approfitta per proseguire nella terza vendita di greggio senza il beneplacito di Baghdad: il cargo partirà tra una settimana, direzione Turchia, alleato dell’ultima ora dei curdi iracheni.

Sul piano politico, dopo la storica apertura del presidente iraniano Rowhani, funzionari Usa hanno parlato dell’intenzione di Obama di utilizzare il dialogo sul nucleare -lunedì prossimo a Vienna – per trattare un possibile intervento congiunto. Ieri il segretario di Stato Kerry si è detto pronto a discutere con l’Iran e ha aggiunto che l’utilizzo dei droni «potrebbe essere una buona opzione». L’Iran si sta già muovendo – seppur non siano confermate le voci sulla presenza di 2mila pasdaran in territorio iracheno – e in un simile scenario l’apertura degli Usa è volta non solo a ricacciare indietro i qaedisti (che operano invece in Siria pressoché indisturbati), ma anche a controllare Teheran, nel timore che un suo intervento nella crisi possa tradursi nella trasformazione di Baghdad in uno Stato satellite iraniano.

La tensione monta a ritmi incontrollabili: «instabilità crescente», così la portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Jen Psaki, ha definito ieri la situazione irachena. Un modo per descrivere una guerra civile in fieri in un Iraq devastato dall’occupazione statunitense e lasciato in preda ai propri settarismi interni. E se oggi il presidente Obama e Hillary Clinton puntano il dito contro il figlioccio Maliki, sarebbe bene che ricordassero chi impose nel 2006 lo sciita come premier.

Al suo terzo mandato, rinnovato solo poche settimane fa, Maliki ha lavorato negli ultimi otto anni con l’obiettivo di centralizzare ulteriormente il potere guadagnato, forte del sostegno di Washington e di una rete clientelare e nepotista che ha tagliato fuori le istanze politiche ed economiche della comunità sunnita, relegando in un angolo le reali necessità di un paese che doveva ricostruire le proprie basi istituzionali, infrastrutturali e socio-economiche.