Ci avevano messo un anno per allestire quelle tende in grande sfarzo. Era il 1971, a Persepolis, cuore storico dell’Iran del sud. Vassoi colmi di prelibatezze, arrivate dritte dalle cucine di Maxim’s a Parigi, sfilavano davanti ai leader di mezzo mondo, tra i drappeggi preziosi voluti dallo Scià Mohammed Reza Pahlavi per celebrare in pompa magna i 2500 anni dell’Impero persiano. Mentre una grande fetta di iraniani viveva praticamente in miseria, i banchetti continuarono per quasi quattro giorni e lo Scià – davanti alla tomba di Ciro il Grande, a Pasargade – si autoconsacrava discendente del padre dell’Impero, «re dei re». Diceva: «Ciro, dormi in pace. Vegliamo noi».

Si affidava al passato grandioso, agli anni delle battaglie e delle conquiste dell’Impero, per legittimare la sua monarchia. Rievocava la magnificenza dei predecessori nel tentativo di cristallizzare il presente, attraverso un’implicita continuità con il passato. Immaginando un Iran secolare, costruiva un’identità nazionale e strumentale al discorso del potere. Conferendo una natura simbolica e rituale al parallelo con Ciro il Grande, lo Scià de facto cercava di cancellare l’eredità islamica, puntando sulla presunta «purezza» etnica. Costruiva così un legame con il passato, reinventava cioè una tradizione. E, come ha scritto lo storico britannico Eric Hobsbawm, «il passato al quale» le tradizioni «fanno riferimento – reale o inventato che sia – impone pratiche fisse».

La sutura era, dunque, la continuità con i tempi antichi, il legame era con la Storia che fissa le relazioni sociali e tenta di legittimare i rapporti di autorità. Ma in realtà, il nazionalismo à la Pahlavi si serviva della continuità solo a livello presunto. L’interesse effettivo era l’immutabilità: garantire la sopravvivenza del regime, mantenere lo status quo, e dunque, ricercare nel passato solo una solida fonte di riconoscimento.

Quindici giorni dopo l’autoglorificazione dello Scià al cospetto della tomba di Ciro, l’ayatollah Ruhollah Khomeini parlava davanti al mausoleo di Ali, cugino e genero del profeta dell’Islam, Maometto. Era il 31 ottobre dello stesso anno. La cornice era la città di Najaf, in Iraq. Colui che poi si sarebbe appropriato delle istanze rivoluzionarie del 1979, ergendosi a collettore delle richieste di cambiamento dei manifestanti iraniani, ribaltava dal suo esilio il paradigma fondante dei Pahlavi.

Sosteneva che il regime non aveva alcuna legittimità: in quanto «tirannico» e in balìa di forze straniere e perché, posto nella sua natura monarchica, da considerarsi intrinsecamente contrario all’Islam come sistema di governo. Aggrappandosi con il suo discorso al passato musulmano degli iraniani (di qualsiasi etnia, ma visti come tutti sciiti), Khomeini segnava una cesura: politicizzava l’identità islamica dell’Iran, salvo poi rielaborarla negli anni seguenti con la novità di un governo del clero, in contrapposizione all’establishment di allora. La singolarità della religione, a quel punto ideologizzata, intrecciava così tre piani differenti: 1) La percezione di una minaccia; 2) la denuncia di un abuso; 3) il senso di urgenza. Il discorso di un potere alternativo allo Scià si articolava facendo leva sulla mobilitazione e costruendo un implicito terreno di coesione collettiva contro «il nemico» comune: «Facciamo in modo che smettano di comportarsi in questo modo con la nostra gente, che l’immenso budget del governo venga speso per le persone affamate e povere. (…) Vi dico che si prospetta un futuro buio e pericoloso ed è vostro dovere resistere e servire l’Islam e i musulmani», diceva Khomeini.

Se è evidente l’asimmetria nelle due narrazioni del passato – una di matrice nazionalista, l’altra religiosa – c’è uno schema comune, almeno in termini di rielaborazione della Storia al fine di farla apparire non solo compatibile con il presente, ma anche sigillo di garanzia (una sorta di «usato sicuro») della contemporaneità. Altro elemento presente in entrambe le cornici è una volontà manifesta di fissare dei riferimenti identitari chiari, riconoscibili, ma soprattutto esclusivi di una o dell’altra identità.

In un Paese che ha una storia millenaria, ma è relativamente giovane come Stato moderno, a far sovrapporre per un attimo le due narrazioni – entrambe funzionali al discorso del potere e al suo esercizio – è l’integrità territoriale di lunghissima data che l’Iran vanta. Significa che in quelle stesse terre vivono da anni, almeno simbolicamente, gli iraniani di oggi. E la maggior parte di loro parla il farsi. Se consideriamo, infatti, l’identità come relazione e quindi come percezione della differenza rispetto all’altro, sia all’interno di una cornice politica nazionalista e secolare che in uno schema di natura islamica, l’obiettivo dello Scià come di Khomeini era sottolineare l’unicità (e la coesione) del popolo d’Iran rispetto alla propria autorità. Come ha osservato l’analista Shahram Chubin, l’Iran è in qualche modo «benedetto» da un «forte senso dell’identità, una cultura degna di nota e un’antica civiltà dalle quali trae ispirazione». Poste queste condizioni ed esplorate le due lenti politiche di rielaborazione dell’identità, possiamo tracciare una linea immaginaria che da quell’ottobre del 1971, e dal party sfarzoso dello Scià a Persepolis, arriva fino al 2016.

È del 28 ottobre scorso, infatti, la notizia che racconta di una manifestazione sotto la tomba di Ciro il Grande a Pasargade, in occasione dell’anniversario del suo ingresso a Babilonia. Le cose sarebbero andate così. Quel giorno, nel giro di poche ore, sui social rimbalzano dei video in cui alcune persone urlano in coro: «L’Iran è la nostra nazione, Ciro è nostro padre». Alcuni report parlano di migliaia di persone: l’agenzia Fars scrive di diverse persone arrestate. Raccoglie poi le parole dell’ayatollah Nouri Hamedani, secondo cui questo rigurgito nazionalista sarebbe «contro lo spirito della rivoluzione» del 1979 (e quindi in opposizione ai principi della Repubblica islamica).

Dunque, se da un lato è doveroso ammettere che la verifica indipendente dei filmati è difficile, dall’altro è cruciale rilevare che tutto ciò avviene proprio mentre il presidente della Repubblica islamica, Hassan Rouhani, pragmatico che si è intestato l’onere delle riforme, ha ufficialmente aperto – in tandem con l’Unesco – una nuova era di «protezione del patrimonio storico e culturale dell’Iran» (compreso quello del glorioso Impero persiano).

Non solo: recentemente Rouhani ha pubblicato una foto di sé su Instagram e alle sue spalle si scorge Persepolis. La didascalia dell’immagine elogia il valore simbolico del sito archeologico come patrimonio delle «antiche civiltà». Questo, però, non determina la misura di eventuali spinte nazionaliste all’interno della Repubblica islamica. Lascia comunque pensare a una trasformazione nel discorso politico istituzionale.

Dopo la rivoluzione del 1979 nella neonata RI la narrazione seguiva delle direttive prettamente religiose, escludendo i messaggi nazionalisti. Con il passare degli anni, la retorica istituzionale si è poi arricchita anche di un immaginario più diversificato: 1) è celebre lo slogan della campagna elettorale del riformista Mohammed Khatami nel 1997, «l’Iran per tutti gli iraniani», che campeggiava sui poster con la bandiera del Paese; 2) nel 2010, il presidente populista Mahmoud Ahmadinejad ha esplicitamente accostato il nome di Ciro il Grande al linguaggio presidenziale, come mossa per risvegliare il collante nazionalista in tempo di crisi economica. E ancora, a ricordare che l’Iran non è un blocco monolitico è un passaggio di un recente articolo di Rohollah Faghihi su «al-Monitor» che – citando fonti riservate – evidenzia che c’è un gruppo di religiosi che non ha nulla in contrario all’orgoglio nazionale (se questo serve a garantire unità al Paese), pur opponendosi all’arcaismo nazionalista tipico dell’era Pahlavi. Un anonimo esperto sciita avrebbe spiegato che «l’Islam non cerca di estirpare l’orgoglio nazionale che le persone nutrono.

Ciò che sta accadendo attualmente è un fatto politico. La religione non rifiuta Ciro o la storia antica in sé. Chi si oppone non parla per tutti».

Il passato, dunque, è invocato, usato e manipolato per costruire e rielaborare di volta in volta il presente a seconda delle esigenze e degli equilibri politici. La Storia d’Iran, negli ultimi quarantacinque anni in particolare, è stata resa funzionale alla costruzione di una narrazione del potere. A ragione, infatti, il sociologo Stuart Hall invitava a non stigmatizzare l’identità come fissa o innata: «Forse, invece di pensare l’identità come un fatto già compiuto, rappresentato dalle pratiche culturali emergenti, dovremmo pensarla come «produzione», cioè come un processo sempre in atto, mai esauribile. Questa visione problematizza l’autorità». Perché, come abbiamo visto, l’identità rientra in un processo di trasformazione, come punto «instabile di un processo di identificazione».