«L’Iran si trova ad affrontare problemi assai gravi: la crisi economica in parte motivata dalle sanzioni internazionali, le proteste causate dalla siccità e quindi dalla scarsità d’acqua nella provincia sudoccidentale del Khuzestan; una quinta ondata di coronavirus in quello che è il paese mediorientale più colpito dalla pandemia, ma dove solo una percentuale molto bassa della popolazione è stata vaccinata; e nuove restrizioni imposte dalle autorità su Internet e sui social media. Un elenco di difficoltà che non vuole essere esaustivo. Non è chiaro come il nuovo governo di Ebrahim Raisi risponderà a questa serie di quesiti. In ogni caso, la Storia dimostra che difficilmente un governo ultraconservatore riuscirà a traghettare l’Iran verso un futuro più roseo».

È con queste parole che la scrittrice iraniana, naturalizzata statunitense, Dalia Sofer commenta l’insediamento – previsto per oggi – dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi alla presidenza della Repubblica islamica dell’Iran. Eletto lo scorso 18 giugno in elezioni dove praticamente non aveva contendenti, Raisi si è accaparrato la poltrona del presidente moderato Hassan Rohani, in carica per due mandati successivi. Già a capo della magistratura della Repubblica islamica, negli anni Ottanta Raisi aveva firmato la condanna a morte di migliaia di oppositori e per questo motivo è nella lista nera degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

Dalia Sofer è una scrittrice della diaspora iraniana: nata a Teheran nel 1972, all’indomani della Rivoluzione è andata a vivere a New York con la famiglia. Ricorreva l’anno 1982, Dalia era una bambina di dieci anni. I suoi romanzi sono ambientati nell’Iran post-rivoluzionario. Come spiega la competente studiosa Giulia Valsecchi nell’interessante saggio Transiti. Percorsi di scrittura femminile tra Iran e America (Mimemis, 2021, pp. 184, €18), «per le scrittrici iraniane della diaspora la Rivoluzione del 1979 è uno spartiacque, ovvero un momento storico – vissuto oppure no – attraverso cui ricostruire una memoria e un punto di osservazione su di sè».

Dalia Sofer, l’editore italiano Mondadori ha appena pubblicato la versione italiana del suo ultimo romanzo, «Uomo del mio tempo» (traduzione dall’inglese di Manuela Faimali, pp. 344, €20). Il protagonista si chiama Hamid Mozaffarian, è nato nel 1960 e nel momento in cui lo Shah scappa dall’Iran e i rivoluzionari si insediano a Teheran ha appena compiuto 18 anni. Nelle prime pagine del libro, Hamid ricopre il ruolo di delegato alle questioni europee e americane per il Ministero degli Affari Esteri di Teheran. Rivolgendosi al ministro, Hamid afferma: «Parlare con gli americani è come fare il burro con l’acqua. Az āb kareh gereftan». In altri termini, è impossibile. In missione diplomatica a New York, Hamid incontra la propria famiglia dopo 38 anni e gli viene chiesto di riportare in patria le ceneri del padre. Che cosa rappresenta Hamid?
Da ragazzino è sensibile e solitario, in qualche modo distante dalla propria famiglia, specialmente dal padre. Da giovane diventa un rivoluzionario e dopo una serie di errori, tra cui il tradimento di suo padre, rompe i ponti con la famiglia. I suoi genitori e il fratello se ne vanno negli Stati Uniti. Lui decide invece di restare a Teheran. Dapprima gli viene chiesto di interrogare le persone arrestate poi, quando non riesce più a fare i conti con la propria coscienza, trova un impiego al ministero degli Affari Esteri. Si sposa, ha una figlia, ma alla fine entrambe lo lasciano. È un uomo in conflitto con se stesso. Nel romanzo si pone domande, riflette su che cosa abbia fatto del mondo e che cosa il mondo abbia fatto di lui.

Hamid si rivolge al fratello Omid con queste parole: «Voi, tutti voi che ve ne siete andati per non tornare più, siete congelati nel tempo. Avete un solo ricordo irrevocabile, e continuate a riviverlo nella vostra mente. E avete già messo al mondo una nuova generazione senza alcuna memoria delle proprie origini, a parte qualche kebab mangiato insieme ai parenti in un ristorante di New York o Los Angeles, con il disco di una vecchia icona pop che suona in memoriam». Come tanti, all’indomani della Rivoluzione del 1979 anche lei e la sua famiglia avete lasciato Teheran per trasferirvi negli Stati Uniti. Qual è la sua percezione dell’Iran?
Da bambina e da giovane avevo preso le distanze dal mio passato e, come molti giovani, cercavo di integrarmi nel nuovo ambiente. Nel mio caso si trattava della scuola francese a New York. In un certo senso, mi sono allontanata tre volte dalla mia storia personale. Con il passare degli anni sono stata sempre più attratta dal mio passato e dall’Iran, ho voluto esplorarli e comprenderli entrambi. Negli Stati Uniti si parla spesso di Iran come di un paese in conflitto con gli altri. In questa narrativa c’è una qualche verità, ma ciò che è maggiormente intrigante dell’Iran è il conflitto con se stesso. Per esempio, il passato zoroastriano contrapposto al presente islamico, la storia frammentata rispetto alla tendenza a raffigurarsi come un impero, il risentimento nei confronti delle interferenze straniere rispetto al riconoscere la propria complicità nei confronti di questi poteri. Per molti coloro che hanno lasciato il paese dopo la Rivoluzione l’Iran è restato congelato nel tempo. Da parte mia, cerco invece di afferrarne la realtà sempre in mutamento.

Il titolo del suo romanzo prende spunto dalla poesia di Salvatore Quasimodo pubblicata nel 1947. In quei versi, il poeta sottolineava con forza la dolorosa immutabilità della distruttività umana. Una dolente denuncia, che lei fa propria. Perché ha deciso di raccontare proprio queste vicende?
Uno dei miei obiettivi era esaminare le conseguenze delle decisioni individuali sulla società e sulle generazioni. Volevo mettermi nei panni di qualcuno che aveva partecipato alla rivoluzione e, in contraddizione con la propria formazione, si era ritrovato coinvolto nel nuovo governo. Sebbene sia inizialmente motivato dagli ideali, Hamid continua a cedere a compromessi con se stesso. Finisce risucchiato da un sistema corrotto da cui non riesce a uscire. Ma anche quando lotta contro le proprie decisioni, non si rende conto del tutto delle conseguenze delle proprie azioni finché non è troppo tardi. Inoltre, volevo addentrarmi nella storia del paese, esaminarne le diverse classi sociali, l’eredità culturale, i movimenti artistici vivaci, sia del passato sia del presente. L’io narrante è Hamid, ma nel libro emerge una moltitudine di punti di vista e di esperienze. Infine, volevo considerare le diverse forme di esilio: può essere geografico, come nel caso della famiglia di Hamid in America; oppure esistenziale, persino spirituale come nel caso di Hamid. In entrambi i casi c’è una sconnessione: nell’esilio geografico sei in due posti (qui e là) in due tempi diversi (il presidente e il condizionale, il dove sei e dove avresti potuto essere); nell’esilio esistenziale o spirituale sei invece tagliato fuori dal mondo e dal suo significato.

Il suo romanzo precedente, tradotto in oltre quindici lingue e pubblicato in italiano da Piemme, si intitolava «La città delle rose» e raccontava le vicende di una famiglia iraniana all’indomani della Rivoluzione. Per gli scrittori della diaspora la Rivoluzione diventa un’ossessione: non vorrebbe andare oltre e liberarsi di questo passato?
Arriva un momento in cui devi riconoscere la realtà della tua esistenza. Nel mio caso, come in quello di milioni di altri, sono stata separata dal luogo dove sono nata. Non posso farci nulla. È stato doloroso, ma l’ho accettato. Tagliare i ponti con l’Iran non è un’opzione, vorrebbe dire eliminare una parte essenziale di me stessa. Spero di continuare a comprendere il paese e, per farlo, il modo migliore è scrivere.