Chi suona il campanello a casa di Mortaza nel quartiere Amir Abad a Tehran, o di Mahnaz a Tajrish, nel nord della città, verso le montagne di Darband dove gli iraniani amano passare liberi le loro serate, non si aspetti una semplice festa. Gli ampi salotti di queste bellissime case persiane il sabato sera si trasformano in cinema privati per proiezioni di film altrimenti censurati in Iran. Come mostrare film d’essai possa diventare una lotta violenta lo racconta il regista iraniano Amir Naderi. Nel suo ultimo lavoro, Cut girato in Giappone, dove vive ora, mostra l’irrefrenabile volontà di un giovane giapponese che organizza un cineforum in una sala ricavata sul terrazzo di un alto palazzo a Tokyo.

A Tehran succede lo stesso. Per ora senza conseguenze, grazie alla stagione di parziale apertura culturale che l’Iran sta attraversando dopo l’elezione del moderato Hassan Rohani. La proiezione avviene tra un bicchiere del proibito arak (il liquore locale venduto al mercato nero) e un’accesa discussione sull’innovazione del linguaggio cinematografico iraniano. In First person singular, Hamideh Rezavi rappresenta i tanti volti delle donne persiane: il primo fotogramma propone una donna avvolta in un velo nero, che inizia il racconto come un cantastorie; segue il viso senza veli dell’autrice, rinchiuso da uno schermo strettissimo, ripreso da un iPhone. Il volto si trasforma poi in una marionetta bianca in un’atmosfera che ricorda quella dei Cremaster di Matthew Barney.

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Lo spazio di una breve discussione e inizia la seconda proiezione. Giovani, critici, gente del mestiere e semplici amici curiosi, tutti con familiari o esperienze di vita all’estero, sono seduti uno accanto all’altro o su cuscini di fortuna. Rivolgono lo sguardo allo schermo bianco e alle immagini talvolta sottotitolate in inglese.

Il secondo lungometraggio è di Mahmud Ghaffari. This is a Dream racconta le peripezie di una giovane traduttrice alla ricerca di un prestito. Fino all’amaro finale: la protagonista è violentata dall’usuraio. Nel breve spazio di un film sembra succedano troppe cose rispetto ai grandi titoli del cinema iraniano di Abbas Kiarostami, a cui questi giovani registi spesso si ispirano. In Caso 1, caso 2 (’79) e in L’esperienza (’73) Kiarostami racconta ogni particolare con una semplicità che non ha bisogno di trama. Non è facile capire le ragioni per cui film come questi sono stati proibiti. «Le autorità iraniane vogliono che la realtà venga rappresentata come un paradiso e che si cancelli tutto quello che non va», ci spiega l’attrice protagonista del film Adis Mir Amini. Alle proiezioni segue una discussione accesa, quasi sempre su come rinnovare il cinema iraniano.

La casa di Monir

Ancora più informale è la proiezione del documentario sulla vita di Monir Farman Farmaian, realizzato da Bahman Kiarostami nella sala improvvisata a Tajrish. Monir è un’anziana pittrice iraniana che vive da sessant’anni tra gli Stati uniti, dove ha conosciuto Andy Worhol e Jackson Pollock, e Tehran. Si ispira all’arte tradizionale iraniana, prendendo spunto anche dalle celebrazioni delle festività religiose sciite tra schizzi di pittura su frammenti di vetro e riproduzioni di antiche calligrafie della tradizione persiana.

La straordinaria storia di Monir si chiude tra le macerie della sua casa a Tehran, confiscata, come è accaduto a tante famiglie abbienti e vicine ai Pahlavi, dopo la rivoluzione del 1979. Anche il suo giardino, una volta ricoperto di mosaici e pieno di opere surreali, venne completamente depredato.

La struttura del film non convince però il critico Majid Islami. «Il documentario non segue una logica nella rappresentazione degli eventi diluendo l’attenzione sul personaggio», commenta, invitandoci a guardare gli ultimi capolavori del cinema locale: Cube of Sugar di Reza Mir Karimi e Shadow Yellow Sky di Majid Tavakoli.

I concerti rock all’Ivane shams

Ma non è solo il cinema a vivere una nuova stagione felice, seppure apprezzata solo da un pubblico «scelto». A venire allo scoperto sono anche i gruppi rock iraniani, in passato relegati nei garage e negli ambienti underground anti-regime. Dopo varie visite dei sepah e-pasdaran, preoccupati dal pubblico del concerto, Farshad Fouzouni ha potuto esibirsi con bassista e chitarrista in un teatro normalmente dedicato alla musica tradizionale, al tar, al setar e al tombac dei grandi maestri iraniani: Alizadeh, Shajarian, Lofti e Jahanmani. «Ho iniziato a fare rock ascoltando i Pink Floyd e Cat Stevens, ma anche i rocker iraniani degli anni Settanta come Kuroshyaghmayi» ci racconta Farshad. Il cantante si ispira per i suoi versi al poeta e cantautore americano Shel Silverstein. Immagini psichedeliche compaiono alle spalle del gruppo. «Un uomo adulto che parla come un bambino raccontando la sua vita quotidiana: è questo il mio modo di rappresentare la realtà iraniana», dice ancora il musicista. Il pubblico sugli spalti, colmi di rasta, capigliature eccentriche e vestiti originali, resta seduto per poi scoppiare in un accenno di danza alla fine del concerto.

 

Il festival Fadjr

Neppure il teatro sperimentale è esente da questa nuova piccola primavera culturale iraniana. Centinaia di spettatori cercano disperatamente di trovare gli ultimi biglietti per Socrates, lo spettacolo di Amid Reza Nahim in scena al bellissimo teatro Vahdad. Un vecchio Socrate racconta la sua vita tra uno scontro con Santippe, Platone, vestito da uomo d’affari, e giovani rapper saccenti.

Intanto al teatro Iranshahr riprende (fino all’1 febbraio) il consueto appuntamento con il festival teatrale Fadjr. Quest’anno sono ospiti anche gli italiani Muta Imago con il racconto degli eventi legati alle rivolte in Egitto, Pictures from Gihan.

I segnali di nuova linfa per la cultura iraniana non si fermano qui. Presto riprenderà a suonare l’orchestra sinfonica di Tehran che aveva chiuso i battenti per mancanza di fondi durante la presidenza del radicale Ahmadinejad. In segno di protesta i musicisti avevano in varie occasioni indossato indumenti verdi, simbolo delle proteste contro la rielezione del presidente ultra conservatore nel 2009. Mentre, nonostante le polemiche della vigilia, uscirà alla fine dell’anno il film sulla vita di Maometto del regista iraniano Majid Majidi, che aveva ottenuto un buon successo con I ragazzi del Paradiso. La cultura torna insomma a fluire tra i limiti imposti dal rigido sistema politico della Repubblica islamica che, lentamente, sta tentando di aprire nuovi spazi per la società civile iraniana