Non senza qualche perplessità Hannah Arendt aveva accettato di seguire, come inviata del «New Yorker», il processo contro l’ex tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann. Nel maggio del 1963 uscì il suo libro Eichmann a Gerusalemme. Il sottotitolo A Report on the Banality of Evil era destinato a suscitare accese polemiche.

Perché parlare di «banalità del male»? Non si rischiava così di banalizzare persino la Shoah? E, soprattutto, non si finiva per togliere ogni responsabilità ai criminali nazisti? Oggi, a cinquant’anni di distanza, la controversia non è conclusa. Il libro che la casa editrice Giuntina ha appena pubblicato Eichmann o la banalità del male. Intervista, lettere, documenti (traduzione di Corrado Badocco, pp. 214, euro  14) è perciò uno strumento indispensabile per orientarsi: non solo offre un quadro complessivo di quelle polemiche, ma permette anche di risalire alla Germania del primo dopoguerra, poco propensa a parlare di quel che era accaduto, e restia a seguire Hannah Arendt che, a proposito della «soluzione finale», non si stancava di ripetere: «io devo comprendere».

Apre la raccolta una intervista, mandata in onda il 9 novembre 1964, e recuperata solo di recente, in cui la filosofa risponde alle domande di Joachim Fest, giornalista e storico che l’anno prima aveva pubblicato Il volto del Terzo Reich, una sorta di ritratto dei capi nazisti, da Hitler a Göring, da Ribbentrop a Hess. Il dialogo tra Arendt e Fest si protrae poi nella corrispondenza, interrotta nel 1973.

Un sinonimo di banalità potrebbe essere stupidità. Eichmann non era la bestia degli abissi, né un angelo caduto; non aveva nulla di demoniaco, né di profondo o addirittura abissale. A guardarlo da vicino era un piatto burocrate, un grigio impiegato, rimasto fedele al giuramento fatto nell’assunzione del suo ufficio. D’altronde i criminali nazisti, imputati al processo su Auschwitz, che si era aperto a Francoforte nel 1963, non avevano sostenuto di essersi limitati a eseguire gli ordini? Erano stati piccole rotelle all’interno di un ingranaggio che avrebbe funzionato anche senza di loro. Come poteva essere allora condannabile un criminale che alla fin fine era solo un funzionario? Quale colpa poteva essergli imputata?

Nella scandalosa stupidità di Eichmann – non un «mostro», bensì un «buffone» – Arendt indica il pericolo di una «assenza di pensiero». Il che comporta sia il fatto di non riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, sia il non riuscire a «mettersi nei panni degli altri». Il male va ricondotto a una attività incessante e ripetitiva che non permette di fermarsi e, dunque, di pensare. Così è impossibile raggiungere un giudizio autonomo. Lo aveva già detto Kant mettendo in guardia contro il dovere dell’obbedienza.

Il burocrate che ha preso parte al «massacro amministrativo», una volta di fronte al giudice, esce dall’anonimato, e deve parlare in prima persona. Incomparabilmente «più terribile di qualsiasi altro assassino», il criminale nazista, che si è trincerato dietro la propria scrivania, per non avere più alcuna relazione diretta con le centinaia e migliaia di vittime, è tenuto a rispondere per non aver pensato e per aver obbedito. La resistenza è sempre possibile, anche in un regime totalitario. Negli anni successivi Arendt sarebbe tornata sia sul tema della «sconsideratezza» – perché l’antidoto contro il male è il pensiero – sia sulla grande questione della «disobbedienza civile».

Il processo Eichmann ha rotto il silenzio sullo sterminio. E il libro di Arendt ha contribuito in modo decisivo a modificare persino il modo di discutere sulla Shoah. Tuttavia è evidente, anche grazie ai materiali ora pubblicati sulla controversia, che il suo ritratto di Eichmann è datato. Più volte, nel corso dell’intervista, mentre sono messi da parte gli intenti criminali, la motivazione ideologica viene ridotta, se non esclusa.

«L’ideologia non ha avuto, credo, una grande importanza. Questo mi sembra l’aspetto decisivo». Eppure per le SS gli ebrei erano i nemici della Germania. Già Hitler aveva proclamato in Mein Kampf la necessità di una guerra contro gli ebrei in difesa dell’occidente che, come oggi appare sempre più chiaro, aveva motivazioni politiche, se non teologico-politiche. Inoltre l’attenzione di Arendt era rivolta alla personalità autoritaria nel suo rapporto con il totalitarismo. Forse anche per questo non si era accorta della pericolosa china che andava prendendo la ricerca di Fest, prima nelle Memorie dell’architetto nazista Albert Speer, poi nella biografia di Hitler che sarebbe uscita nel 1973. Ma dopo aver ricevuto il libro, accompagnato da una lettera di Fest, e dopo aver letto l’introduzione su Hitler e la grandezza storica, Arendt rispose con un commento di Brecht: «i grandi criminali politici vanno assolutamente denunciati, esponendoli soprattutto al ridicolo. Perché non sono per nulla grandi criminali politici, bensì autori di grandi crimini politici – il che è molto diverso». Così fu interrotta la corrispondenza.

Sul conto di Fest non si era sbagliato, invece, il critico letterario Marcel Reich-Ranicki, ebreo polacco, intellettuale raffinato e vigile, accusato negli anni settanta di essere comunista e amico di Ulrike Meinhof (come racconta nel libro La mia vita, Sellerio 2003). Nel 1986, in occasione della disputa degli storici sulla Shoah, Fest ospitò sulle colonne della Frankfurter Allgemeine Zeitung il discorso di Ernst Nolte che interpretava i lager nazisti come legittima risposta tedesca al bolscevismo. A nulla valsero le critiche di Reich-Ranicki. Anche in seguito, quando, in un’intervista allo Spiegel del 1994, Nolte si spinse a negare le camere a gas, Fest non prese mai le distanze. Resta infine l’accusa che Arendt rivolge ai consigli ebraici, colpevoli di aver «collaborato» con i nazisti. È una accusa formulata per la prima volta nel libro su Eichmann e ripresa anche nel dibattito successivo.

La questione appare oggi ancor più controversa. In un’intervista rilasciata a «Le monde» qualche giorno fa, il 1° giugno 2013, la storica Annette Wierviorka punta il dito contro la parola «collaborazione» che ritiene grave, e adeguata semmai al governo di Pétain o ai fascisti in Italia. Per Arendt gli ebrei avrebbero dovuto rifiutarsi di formare i consigli. Perché «sono andati alla morte come agnelli al macello»? E perché i capi delle comunità ebraiche «hanno contribuito allo sterminio»? La storia non si fa con i «se» – obietta Annette Wierviorka. Né è possibile giudicare con il senno di poi. Molti capi comunitari non immaginavano lontanamente – come appare sempre più chiaro dalle testimonianze – quale fosse, nella razionalità nazista, la meta ultima delle deportazioni. E poi come avrebbero potuto difendersi gli ebrei che in Europa erano «una nazione senza stato e senza esercito»? Al tema della difesa e della resistenza contro chi nell’ebraismo e negli ebrei vede il nemico da annientare, sono dedicati i saggi raccolti nel volume Politica ebraica (Cronopio, 2013, pp. 306, euro 26), tradotti per la prima volta in italiano da Renato Benvenuto, Fiorenza Conte e Antonella Moscati. Nel volume compare fra l’altro il colloquio con Thilo Koch sul caso Eichmann. I saggi, che vanno dal 1933 al 1966, consentono di seguire lo sviluppo del pensiero politico di Arendt.

Insieme alle riflessioni sull’antisemitismo, e a quelle sull’assimilazione, particolarmente significativa è la critica rivolta al sionismo nazionalistico di Theodor Herzl che ha preteso di ridurre il popolo ebraico a una nazione e ha trovato la propria meta nello stato. Nel rivendicare non solo il diritto all’autodifesa di Israele, ma anche e soprattutto il riconoscimento politico del popolo ebraico, Arendt apre un nuovo capitolo, quello di una «politica ebraica» che, guardando esemplarmente oltre lo stato, verso una nuova forma di comunità, è ancora tutto da scrivere.