Volenti o nolenti, nelle ultime settimane è praticamente impossibile non essersi imbattuti nel remix del discorso di Giorgia Meloni a piazza San Giovanni – il famigerato «io sono Giorgia / sono una donna / sono una madre / sono cristiana», il ritornello «genitore 1 e genitore 2» e l’hashtag #IoSonoGiorgia.

Pubblicato sul canale YouTube di MEM & J (due dj milanesi) con intenti parodici e pro-Lgbtqi, in brevissimo tempo il video ha raggiunto milioni di visualizzazioni e ha generato un meme condiviso e rielaborato da centinaia di migliaia di persone su tutti i social network, finendo poi per essere ripreso in chiave propagandistica dalla stessa Meloni.

La quale, insieme al suo staff comunicativo, sembra essere riuscita a centrare un obiettivo inseguito sui social network da diverso tempo a colpi di estetica manga, post ispirati a Game of Thrones, draghi cavalcati al Romics e altri tormentoni (come «Ollolanda» di Fabio Celenza): quello di diventare una specie di meme vivente.

 

Naturalmente, Meloni non è la prima e non sarà di certo l’ultima leader a ricercare, subire e cercare di governare questa trasformazione. Dopotutto, l’intera politica odierna è esposta a un generale processo di «memizzazione», come sostengono nel recente saggio La politica pop online (Il Mulino) gli autori Giampietro Mazzoleni e Roberta Bracciale – il primo professore di comunicazione politica all’Università di Milano, la seconda professoressa di sociologia dei nuovi media all’Università di Pisa.

Il punto da cui parte Mazzoleni non è tanto la dimensione pop (già oggetto di un altro suo libro del 2009, Politica pop), che c’è «sempre stata nell’azione politica e sempre ci sarà»; piuttosto, è sul grande mutamento dell’ambiente comunicativo in cui rientra anche la sfera politica.

«Ieri erano i mass media a dominare la scena e a fare da sfondo alle imprese dei politici», spiega il professore a il manifesto, «oggi ai media tradizionali si sono aggiunti prepotentemente i social media». Ci troviamo dunque in un «ecosistema ‘ibrido’ in cui le vecchie logiche mediali si intrecciano con quelle tipiche delle piattaforme digitali: orizzontalità, accessibilità, disintermediazione, viralità».

Ciò, continua Mazzoleni, ha permesso a milioni di utenti-produttori («produsers») di «partecipare direttamente alla costruzione del discorso politico e di porsi come interlocutori dei politici, immettendovi elementi che saccheggiano ciò che è già presente nella cultura pop e creandone di nuova».

In sostanza, la «memizzazione» è un «meccanismo progressivo di appropriazione e riconfigurazione dei temi presenti nell’agenda pubblica da parte degli attori sociali, che si sviluppa attraverso il remix tra contenuti politici ed elementi della cultura pop all’interno».

La contaminazione tra televisione e social media occupa un posto chiave in questo meccanismo. Da un lato, la televisione è ancora al centro delle cronache politiche e mantiene la sua importanza, avendo già ampiamente «mediatizzato» la politica; dall’altro, gli utenti attivi sui social network si appropriano di quello che succede in tv, lo modificano e lo fanno giungere anche dove la televisione non arriva.

I politici e le politiche sono così costretti a rimanere a cavallo tra queste due sfere, e lo fanno con diversi gradi di spregiudicatezza. «I salotti televisivi hanno sostituito i luoghi istituzionali dove si scontrano i vari leader» che, dice Mazzoleni, «allestiscono show ad uso e consumo della politica post-moderna, fatta di battute, pillole informative, gag, urla e anche insulti».

Per capirci: se nel 1997 il famigerato risotto di Massimo D’Alema a Porta a Porta era in qualche modo un’eccezione, ora è la regola; e in alcuni casi può esserci una differenza davvero impercettibile tra un leader politico, il presentatore di un talk e il concorrente di una trasmissione di Maria De Filippi.  

Per il professore, la vera differenza «è che oggi tutto è stato sdoganato, tutto è permesso, tutto viene usato dai politici per imporsi all’opinione pubblica e ad elettorati sempre più volubili». A mancare in questo panorama è il «giornalismo watchdog», ormai quasi del tutto soppiantato da «giornalisti che nella peggiore delle ipotesi che sono dichiaratamente faziosi e nella migliore vanno a braccetto con i politici».

Sempre più spesso, dunque, i meme politici suppliscono al «graffio giornalistico che non c’è, spesso più micidiale per un leader politico. L’opposizione a Salvini la vediamo di più sui social, dove girano migliaia di post sarcastici, che non nelle dirette dei talk». 

Ma il ruolo dei meme in questo ecosistema ibrido è comunque sfaccettato e complesso, e la loro evoluzione segue traiettorie davvero imprevedibili. Lo si è visto chiaramente nel caso #IoSonoGiorgia, per tornare al punto di partenza, che nei vari dibattiti (online e non) ha sollevato svariate domande: è un modo di rendere accattivante un personaggio politico? È una critica consapevole? È propaganda inconsapevole? È un acceleratore di consensi? O è tutte queste cose insieme?

«La chiave pop e ironica che ha caratterizzato i processi di viralizzazione del meme», afferma Roberta Bracciale, «lo ha svuotato dalla sua connotazione ideologica, rendendolo un tormentone di cui si sono riappropriati pubblici diversi e spesso in antitesi» – si va dalle bacheche dei sostenitori della Meloni, per esempio, fino ai concerti di M¥SS KETA.

L’approdo in televisione e nei media mainstream ha completato l’ibridazione, portandolo a pubblici generalisti e arricchendoli di altri remix con contenuti totalmente differenti (come Luciana Littizzetto che usa l’espressione «conduttore 1» e «conduttore 2»).

Si tratta, insomma, di un prodotto «in grado di rappresentare una memizzazione perfetta». Eppure, conclude la professoressa, «da qui a sostenere che la popolarità di Meloni si traduca in intenzioni di voto la strada è estremamente lunga».