L’Italia non è la Corea del Sud dove i cellulari e le carte di credito sono stati usati per tracciare i contatti delle persone infette. Ma lo smartphone l’abbiamo anche noi e i nostri dati, anche se il governo non può (o non sa) usarli, vengono raccolti anche in Italia. Certo, bisogna farlo con il nostro consenso e rispettando il Regolamento europeo per la protezione dei dati (Gdpr), ma si fa. Non ci sono solo Google, Facebook e Amazon: tantissime aziende soprattutto nel settore della pubblicità online accedono ai nostri dati per valutare l’efficacia di campagne pubblicitarie e consigliare i loro clienti su come migliorarle. Una di queste si chiama Cuebiq, con una sede a New York e un dipartimento di ricerca a Milano.
Oltre a lavorare per le aziende, Cuebiq ha avviato un programma battezzato Data for Good, che mette i dati degli utenti (spogliati di ogni elemento identificativo) a disposizione di chi vuole analizzarli per progetti di sviluppo sostenibile, prevenzione delle catastrofi o, per l’appunto, lotta alle epidemie.

LA POSSIBILITÀ è stata sfruttata dai ricercatori che a Torino lavorano all’Institute for Scientific Interchange, il coordinatore della ricerca si chiama Michele Tizzoni. I dati di Cubiq hanno permesso a Tizzoni e colleghi di capire come sono cambiate le abitudini sociali e gli spostamenti di circa 170mila utenti sparsi in tutto il paese in modo uniforme tra le province italiane. «I nostri dati mostrano che dal 6 marzo, il giorno in cui sono entrate in vigore le norme più restrittive, si osserva una fortissima diminuzione degli spostamenti», spiega Tizzoni. «Gli spostamenti medi si riducono di quasi i due terzi rispetto al mese di febbraio». E gli spostamenti in massa verso sud del weekend del 6 marzo? «Dai nostri dati non appaiono in maniera evidente. Ma per questioni di privacy non abbiamo dettagli sufficienti sui dati per seguire i singoli utenti lungo i percorsi». Le province in cui gli effetti sono più evidenti sono quelle più colpite: Lodi, Milano, Bergamo.

I ricercatori hanno potuto analizzare anche la variazione nel numero medio di contatti che ciascun utente ha avuto in media. Nei loro algoritmi, due utenti risultano “in contatto” tra loro se per almeno un’ora rimangono entro un raggio di 50 metri di distanza l’uno dall’altro. E qui l’effetto dei provvedimenti è stato molto inferiore. «Al livello nazionale vediamo una variazione del 18%». Non sembra tantissimo: «Non è un dato uniforme, in alcune province del nord arriviamo al 30%».

IL RAPPORTO che hanno diffuso in rete riguarda la settimana del 6-13 marzo, quella decisiva. Ma l’analisi prosegue e anche la settimana successiva conferma gli stessi dati, racconta Tizzoni.
Si potrebbero usare questi dati per fare il tracciamento dei contatti, come in Corea del Sud? «È una cosa piuttosto complessa da portare avanti. Ma voglio essere cauto e preferisco non dare suggerimenti in questa situazione molto difficile. Alla Fondazione Isi abbiamo già avviato programmi basati sulla “sorveglianza partecipativa”, in cui gli utenti condividono attivamente e volontariamente i propri dati riguardo l’influenza. Abbiamo appena vinto un finanziamento europeo nel quadro di un progetto coordinato dalla mia collega Daniela Paolotti per estendere quello che si fa sull’influenza anche al Covid».

DAI DATI RACCOLTI da Tizzoni e il suo gruppo di ricerca, colpisce la differenza tra il calo evidente degli spostamenti (-65%) e quello dei contatti con altre persone (-19%). Questo dato mostra che diminuire gli spostamenti è più facile che smettere di interagire con gli altri, soprattutto per chi non può scegliere se lavorare o rimanere a casa.
La chiusura delle attività commerciali e le restrizioni agli spostamenti sembrano dunque aver diviso in due l’Italia. Da un lato c’è l’Italia delle ordinanze cittadine che chiudono bar e parchi, costretta al jogging «in prossimità della propria abitazione», dei social network in cui si twitta #iorestoacasa. Ma il benessere di questa Italia si basa sul lavoro dell’altra parte del paese. Quella che non ha scelta se uscire o meno, che sale su metropolitane ancora piene, e che continua ad andare in fabbrica o in ufficio a svolgere attività, forse “strettamente necessarie” ma per qualcun altro.