«Mexico, cittadina del Maine sorta attorno a una cartiera»: poche parole che racchiudono tutto il senso e il destino di luoghi la cui storia è legata a un’attività produttiva industriale. Comincia così Mill Town. La resa dei conti di Kerri Arseanualt (Black Coffe edizioni), uno scritto a metà fra il memoriale e l’inchiesta dove l’autrice ricostruisce la storia della devastazione ambientale e sociale subita dalla città natale. «La città di carta», traduzione di Mill Town, è uno dei simboli di quella macchina tritatutto che diventa la produzione industriale basata su impianti di grandi dimensioni che concentrano il capitale che fornisce un benessere sotto la cui superficie i pensieri si annebbiano e i corpi si corrodono. «Oltre l’ansa del fiume – scrive Arsenault nell’incipit – le ciminiere infilzavano pennacchi di fumo bianco. Sono soldi quelli che escono da lì, dicevano i nostri padri quando cambiava il tempo e dal fiume si levavano zaffate d’aria nauseabonda». Dove l’autrice giocava e cresceva, la fabbrica mentre dava lavoro inquinava fiumi, distruggeva boschi, erodeva argini e i suoi abitanti – compreso suo padre – si ammalavano e morivano di cancro e asbestosi a tassi elevatissimi. Il ciclo di produzione della carta è, infatti, tossico: cloro e diossina sono solo due dei prodotti utilizzati per produrre e sbiancare la carta, e la cartiera per decenni li ha dispersi illegalmente nel territorio. Un crimine a cui hanno contribuito la manipolazione di parole come «valutazione del rischio» e il silenzio di tanti: dai dirigenti della fabbrica alla politica locale ai lavoratori stessi strangolati dal consueto ricatto fra salute e lavoro. Siamo nel profondo nord statunitense ma potremmo essere nelle città miniera di America Latina e Africa, accanto a qualche petrolchimico asiatico, oppure in Italia, a Taranto, Gela , Porto Marghera. Luoghi offerti allo sfruttamento sull’altare dei mantra di profitto e progresso; città, paesi, foreste che i primi studi di giustizia ambientale rivelano abitati da popolazioni più deboli per etnia, situazione economica e il cui sacrificio è normalizzato dall’assuefazione a un sistema predatorio. Mill Town è una storia che mostra crudamente, e dolcemente allo stesso tempo, cosa siamo ancora disposti a sacrificare. Ed è un libro di storia che purtroppo ha ancora bisogno di essere scritto e letto.

Cosa rende la vicenda di una famiglia e di una piccola città del Maine una storia universale?

Il rapporto della mia città e della mia famiglia con l’inquinamento industriale non è unico. Mill Town è la storia di quelle popolazioni svantaggiate che ritroviamo in tutto il mondo e di cui potremmo fare tantissimi esempi: la comunità di Bodo nel Delta del Niger, la cui terra e i cui mezzi di sussistenza sono stati distrutti da due fuoriuscite di petrolio della Shell; il popolo amazzonico dell’Ecuador danneggiato dalle modalità smaltimento dei rifiuti di Chevron, che hanno provocato una diffusione di cancro di proporzioni mostruose. Volendo restare in America, ci sono le persone spinte a vivere in periferia che si ritrovano vicino ai siti di fracking in Colorado o vicino alle compagnie petrolchimiche in Louisiana. Inoltre, le sostanze chimiche tossiche non rimangono dove le metti. Viaggiano nei fiumi e nell’aria e nel nostro Dna. Mill Town, è la nostra storia di noi, di tutti noi.

La verità era sotto gli occhi di tutti, ma è rimasta nascosta a lungo. Perché nessuno sembrava prendere sul serio l’idea di vivere in un luogo pericolosamente contaminato dalla diossina e da altre sostanze chimiche tossiche?

Ho letto alcuni studi sul silenzio dei lavoratori che indicano che circa l’80% delle persone, indipendentemente dal tipo di occupazione, non segnala un illecito sul posto di lavoro. Quindi il silenzio è un problema umano, non solo nella mia città. Inoltre, la scelta è un lusso. Negli Stati Uniti, l’assistenza sanitaria e le prestazioni pensionistiche nella norma sono erogate per mezzo del posto di lavoro, non dal governo. Quindi, se ti trovi di fronte a un buon lavoro retribuito con benefici e senza istruzione superiore o denaro per trasferirti, non hai davvero scelta. Queste reti di sicurezza sono quasi impossibili da rifiutare. Inoltre ci sono molte persone che restano nei loro luoghi d’origine a causa dell’amore per la loro terra, oltre che per i loro amici e familiari. E infine, tutti noi nella vita facciamo affari con il diavolo prima o poi: quelli di noi in una posizione economicamente e socialmente più fragile ne fanno di più.

«Mill Town» è costruito come un thriller, ma non termina con la scoperta della pistola fumante: piuttosto racconta una serie di scelte che lo hanno destinato a diventare una «zona sacrificata»: che cosa si intende con questo?

Gli esseri umani sono ipnotizzati dalle cose scintillanti: eventi spettacolari, grandi notizie, incidenti mastodontici. I mezzi di informazione inoltre ci sottopongono a una dieta costante di disastri che giocano sulle nostre peggiori paure, come gli incidenti aerei o il ceppo Omicron di Covid-19, da cui è difficile distogliere lo sguardo. Ma esistono molti altri disastri che sono invisibili e non attirano la nostra attenzione, come le persone che vengono uccise dai pazzi con le pistole. Per me, queste tragedie – come gli effetti tossici dell’inquinamento – dovrebbero essere nei titoli dei giornali ogni giorno perché ci riguardano tutti. Un recente articolo di David Wallace Wells sulla London Review of Books riporta che nel febbraio 2020 il coronavirus ha ucciso 2.174 persone. Nello stesso mese circa 800.000 persone sono morte per gli effetti dell’inquinamento atmosferico. Probabilmente quelle 800.000 persone sono le più svantaggiate, e per motivi quali istruzione, etnia o povertà. Questo è ciò che intendo quando mi riferisco alle zone sacrificate. I nostri governi – e oserei dire i nostri mezzi di informazione – distolgono lo sguardo, sviano la nostra attenzione con cose che fanno più notizia, fanno leggi e regolamenti che favoriscono il business rispetto alla vita umana, o alimentano una propaganda che ci fa sentire al sicuro.

«Mill Town» è il frutto di una ricerca molto lunga e approfondita. Quali sono state le difficoltà maggiori?

Se non appartieni a un’università, a un’organizzazione o non hai abbastanza soldi per portare avanti un grande progetto di ricerca, gli ostacoli sono moltissimi. Ho avuto difficoltà ad accedere a riviste e testi accademici; non potevo permettermi un assistente di ricerca come fanno tanti ricercatori; ed è stato persino difficile per me ottenere interviste con persone e organizzazioni fondamentali per la mia ricerca, perché fondamentalmente non ero nessuno. Sono anche più vecchia della maggior parte degli scrittori esordienti, non ho un dottorato di ricerca, il che ha rappresentato un handicap nella richiesta di borse di studio e sovvenzioni. Poi, essere una donna non ha facilitato il rapporto con alcune fonti, in particolare quelle provenienti dal comparto industriale di cui mi stavo occupando, ancora molto «vecchio stile»: molto spesso sono stata trattata con accondiscendenza. Inoltre in America, per molte ragioni complicate, generalmente per essere uno scrittore, per stare a galla finanziariamente, ci vogliono soldi. Né io né mio marito siamo ricchi, ma è stato il suo sostegno finanziario che ha reso possibile scrivere questo libro: un progetto che, tra ricerca e scrittura, è durato 10 anni. So di essere stata fortunata, ma questo privilegio di scrivere me lo sono anche sudato.

Crede che sia possibile un futuro migliore per «Mill Town»?

Onestamente non ho molte speranze. Almeno non fino a quando i governi non smettono di preoccuparsi più degli affari che della vita. L’unico seme di speranza è che la pandemia ha illustrato le crepe della catena di produzione globale, e nel caso degli Usa, quanto troppo dipendiamo dall’esterno. Quindi forse impareremo ad appoggiarci alle risorse che abbiamo al nostro interno, che includono fra le altre le persone affidabili, leali e intelligenti della classe operaia delle piccole città industriali. Perché non impiegarle in attività produttive più «verdi», come la produzione di pannelli solari? Questa mi sembrerebbe una strategia win-win.