Le giornate dell’ACID sono cominciate bene, con il documentario di Anna Roussillon. Je suis un peuple racconta al presente un momento della storia d’Egitto compreso tra due rivoluzioni, quella che nel 2011 ha rovesciato il lungo trentennio di Hosni Mubarak alla testa del paese, quella che nel 2013, ponendo fine alla breve parentesi di Mohammed Morsi e dei Fratelli musulmani al potere, ha rimesso in sella i militari. Questo momento che è già storia ha come fuoco il Nord del paese, le sue metropoli, la capitale, la piazza Tahir. Contro ogni attesa, Anna Roussillon piazza la sua cinepresa dal lato opposto. La sua cronaca si immerge in un luogo che sembra essere agli antipodi del cuore dell’azione. Mentre masse gigantesche urlano e cantano al Cairo, Anna discute con una donna, Bataa, che sorveglia il suo gregge sotto una palma, sperduta in un villaggio sconosciuto, relativamente calmo, nel sud del paese.

I primi a sorprendersi di questa strategia sono i protagonisti del film. Il contadino Ferraj, sua moglie Harajiyyé e la loro vincina, Bataa. Arrivando in moto, Ferraj si informa ironicamente con Bataa sull’andamento delle riprese, scherza sul fatto che presto sua lui, sua moglie e il resto della famiglia saranno famosi. Non passa molto prima che lo spettatore si renda conto di quanto la realizzatrice abbia invece colto nel segno concentrando tutto il suo film su questi personaggi. Se rivoluzione, libertà, democrazia, vi sembrano concetti astratti, Je suis un peuple vi spiegherà questi concetti con una concretezza e un’intelligenza disarmanti che non troverete in nessun manuale di filosofia politica. Che parli un padre, un contadino, una moglie, una ragazzina, la prospettiva qui è sempre al tempo stesso personale e politica. Perché non sei andata a votare? Chiede Anna a Bataa. Lei ride. Poi risponde: perché se quello per cui non ho votato vince, potrebbe venirmi a chiedere conto del mio voto.

Il film impone costantemente un sottile confronto tra la rivoluzione in atto e lo stato delle democrazie occidentali. Farraj ha dei problemi quotidiani da risolvere, il principale è dare da mangiare alla propria famiglia. Ma il suo livello di politicizzazione è incredibilmente alto rispetto a qualunque borghese occidentale (il quale dispone dal canto suo di tutto l’ozio possibile). All’inizio le simpatie di Farraj vanno per i Fratelli Musulmani. Il voto a Morsi è pacatamente ma risolutamente preso: «per non tornare indietro». Qualche mese dopo, Ferraj difende ancora l’azione del presidente, mentre il paese che lo aveva plebiscitato comincia a girargli le spalle.

Eppure, nel 2013, Farraj è in piazza con gli altri contro Morsi e la sera in cui l’annuncio della destituzione è ufficializzato, davanti alle immagini della folla della piazza Tahir, esulta come aveva esultato la sera delle elezioni, e afferma: « il popolo egiziano è grande ». Poi guarda verso la regista e dice una frase che vale il film: «non sei d’accordo? Da voi c’è un popolo così, capace di scendere in piazza per giorni e mandare via un presidente? Vi lamentate, ma quand’è che mandate via Hollande?» Già, quand’è?