Il paradosso delle destre che volano nei sondaggi ma che non riescono a trovare candidati adatti alla corsa nelle principali città nella contesa amministrativa del prossimo autunno è la storia di uno schieramento politico che risente ancora della mancanza di una classe dirigente.

È quanto emerge leggendo Io sono Giorgia (Rizzoli), il memoir dato alle stampe da pochi giorni da Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia è consapevole del momento di grazia. È convinta di avere il tocco magico e cerca di portare a casa il risultato triplo: impacchettare dentro la sua storia personale quella collettiva della sua tradizione politica, mantecando il tutto con una spruzzata da intervista di costume nella televisione del pomeriggio che le ha garantito fortuna (si veda il sintagma che dà il titolo al libro, nato per ridicolizzare la grottesca performance omofoba di Meloni dal palco del Family Pride ribaltatosi poi nel tormentone dell’operazione simpatia che l’ha coinvolta).

La missione di Meloni sta tutta nell’esigenza di fare coesistere la patina di nuovo richiesta dal marketing politico con le radici della sua storia cui fa appello per automatismo mentale, quasi per un riflesso pavloviano.
Racconta di essere andata, ancora adolescente e all’indomani della morte di Paolo Borsellino, a bussare alla porta blindata della sezione del Movimento sociale italiano. Questa immersione nella militanza è anche una discesa nei bassifondi della politica. Meloni vive passaggio che il partito erede del fascismo si prepara a compiere verso il governo grazie alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Conosce altri giovani militanti come lei, che si chiamo e si fanno chiamare per soprannome, con nomuncoli di battaglia che rivelano la dimensione clandestina dell’estrema destra, la sindrome da accerchiamento degli anni in cui il fascismo non era un’opzione politica come un’altra.

Tutti questi personaggi, ci tiene a sottolineare Meloni, ora sono con lei al vertice del suo partito. Uno è vicepresidente della camera, l’altro consigliere regionale, quello presidente di regione, quell’altro ancora parlamentare europeo. Lei li descrive come templari capaci di attraversare le fasi politiche, pronti a passarsi il testimone della fiamma tricolore. Ma quando si tratta di tratteggiare l’universo ideologico cede alla deriva pop e dipinge i militanti missini come buffi cosplayer de Il signore degli anelli, peraltro proseguendo l’opera di mistificazione che vuole la trilogia di Tolkien affine all’estrema destra.

Meloni scrive che il fascismo non la riguarda: è cosa di cento anni fa. Lo storico Enzo Traverso ha affermato che «la logica del postfascismo» ruota attorno al «pessimismo culturale»: «la difesa dei valori tradizionali e delle identità nazionali ‘minacciate’; la rivendicazione della sovranità nazionale contro la globalizzazione e la ricerca del capro espiatorio negli immigrati, nei rifugiati e nei musulmani». Questo è anche, stringi stringi, l’orizzonte di Meloni, quando parla di un disegno globalista volto ad annullare le identità al quale bisogna resistere in nome delle tradizioni. E forse è proprio questa morsa tra nuovismo e nostalgia del passato che impedisce al suo partito di avere candidati coi piedi davvero piantati nel contesto meticcio delle nostre città.