Forse, se si dovesse isolare un prerequisito comune a tutti gli scrittori, una sorta di condizione necessaria, sebbene non sufficiente, a dettare il desiderio di fissare sulla carta delle immagini mentali, lo si potrebbe individuare in una speciale capacità di osservazione e nella riluttanza a lasciar scivolare via ciò che viene colto dallo sguardo.

Non è dunque un caso se Richard Ford ha seminato nel suo memoir dedicato alla madre e al padre questa frase, che sembra contenere la chiave della sua motivazione a scrivere: «il mondo spesso non ci nota». Perciò, perché la vita dei proprio genitori, tranquillamente modesta e priva di fatti rilevanti, non passasse inosservata, ha scritto Tra loro (traduzione di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, pp. 134, euro 15,00) dove ricapitola la sua infanzia, la sua adolescenza e soprattutto rende giustizia ai «quattro occhi» dei genitori attraverso i quali imparò a «vedere il mondo». Ma poiché Ford sa bene che ogni memorialista finisce con il rappresentarsi come un personaggio dei suoi stessi ricordi, quel che gli sta a cuore è riconciliare il suo io di allora con l’adulto che è diventato, recuperando all’attualità la mediazione affettiva di sua madre, cui deve – ha scritto – la possibilità di «esprimere i miei sentimenti più sinceri, con un atto paragonabile a quello che la grande letteratura compie sul suo devoto lettore».

Una fotografia del 1929, introdotta da Ford nel suo libro, inquadra la famiglia materna sul carretto trainato, perché quello era il suo mestiere, dal nonno, il quale era stato abbandonato dalla moglie, che se n’era andata con un pugile disoccupato. Quanto alla famiglia paterna, il nonno di Richard si era avvelenato nell’estate del 1916, dopo che i suoi cattivi investimenti gli avevano fatto perdere la fattoria, mentre la nonna era una immigrata irlandese severa di tenerezze.
I fatti degni di nota finiscono qui, perché sembra che la generazione seguente dei Ford, quella dei genitori dello scrittore, si sia incaricata di incarnare un ideale di normalità che, in quanto tale, raramente trova qualcuno interessato a rappresentarlo. Per di più, i genitori di Richard Ford, che si conobbero quando il padre vendeva frutta e verdura nell’emporio di Hot Spings, andavano d’amore e d’accordo, ciò che non permette di incorniciarli in quelle atmosfere fibrillanti alla Revolutionary Road che Richard Yates ha reso emblematiche dei sobborghi americani anni cinquanta.

Per molto tempo Edna Ford poté vantarsi del fatto che suo marito avesse mantenuto un impiego durante tutta la Grande Depressione, ma nel ‘36 arrivò il licenziamento e con esso un nuovo lavoro: il padre di Richard cominciò a vendere amido da bucato per la Fautless Company di Kansas City, spesso in compagnia della moglie che lo aiutava a convincere le potenziali acquirenti, finché anche quel lavoro venne abbandonato e Parker Ford divenne commesso viaggiatore. «Vendere era per lui l’ideale… Sfide più grandi non avrebbero potuto far altro che frustrarlo e renderlo infelice. Se sognava altre cose non ne ho mai sentito parlare.» Poi, però, nel febbraio del 1944, dopo quindici anni di matrimonio, finalmente nacque Richard e tutto cambiò.
L’unico evento della sua vita di ragazzo fu la morte prematura del padre, quando aveva sedici anni, poi la necessità di arrangiarsi nelle assenze della madre, ormai costretta a lavorare, prima in una ditta che fotografava gli studenti per gli annuari delle scuole americane, poi come agente immobiliare, e finalmente all’accettazione del pronto soccorso dell’ospedale universitario del Mississipi, un lavoro che la motivava a dare il meglio di sé.

Chi abbia familiarità con Frank Bascombe, il personaggio cui Richard Ford deve la sua fortuna, non faticherà a riconoscervi quelle oneste qualità, quel bonario temperamento, quella assenza di ambizioni che dai genitori dello scrittore americano sono trasmigrate verso uno dei più famosi uomini qualunque della letteratura americana (l’altro, che molto lo ricorda, è il Rubbit Amstrong dei romanzi di Updike e un altro ancora, che per nulla gli somiglia, è l’Everyman creato da Philip Roth) sebbene Ford non sappia che farsene delle reminiscenze letterarie e si ribelli alla possibilità di attribuire l’aggettivo «qualunque» a un suo personaggio.

Frank Bascombe smentisce le sue pretese, signor Ford, quando nel racconto titolato «Tutto potrebbe andare molto peggio» dice alla signora Pines: «Siamo i new normal». In effetti lei gli proietta addosso non poche caratteristiche dei suoi genitori, e altre le inventa. Come sintetizzerebbe questo mixage di personalità?
Mi ci vorrebbe un anno per rispondere, però intanto dirò che è vero, Bascombe aspira alla normalità. Vede la vita come una sequenza di fatti ordinari: invecchiare, sposarsi, eventualmente divorziare, avere un qualche rapporto con i figli, accettare le proprie frustrazioni, godere delle gioie; ma, soprattutto, intende considerare tutti questi passaggi della vita come eventi ai quali si può sopravvivere. La pensavano così anche i miei genitori, che non contemplavano grandi picchi o disastrosi precipizi, né credevano che la vita potesse essere più interessante di come era. La trovavano comunque attraente, e mi insegnarono che tutto si poteva tollerare.
Quindi la normalità di Bascombe è profondamente motivata, gli appartiene suo malgrado. Del resto lei non è tra quegli scrittori che amano attribuire ai personaggi una loro indipendenza e una vita autonoma, non è vero?
Ci mancherebbe altro: io pianifico sempre tutto, a volte penso a una storia per anni e anni. Del resto, il mondo non ha bisogno di un altro mio romanzo se non so bene cosa metterci dentro. Secondo me, gli scrittori che pretendono di non sapere cosa faranno i loro personaggi semplicemente mentono per evitare di assumersi la responsabilità di quanto accade nei loro romanzi. Il fatto è che i personaggi non sono altro che strumenti fatti di linguaggio, e se non necessariamente si comportano come a me piacerebbe che ci si muovesse nel mondo, sono io ad autorizzarli. La mia volontà è senza appello, il comando è nelle mie mani, se qualcosa non mi piace, semplicemente, schiaccio il pulsante «cancella».
Nel suo memoir lei ricorda i versi in cui Auden evoca la lezione dei Vecchi Maestri sulla cecità della sofferenza, che coglie gli uni mentre gli altri compiono piccoli gesti quotidiani, mangiano, o passeggiano indifferenti. E scrive: «Il fatto che vite e morti passino spesso inosservate ha ispirato specificamente questo piccolo libro sui miei genitori e definito il suo compito». Dunque è un desiderio di testimonianza quel che la induce a scrivere, più che la voglia di raccontare una storia?
Non vedo perché dovrei scegliere, sono vere entrambe le motivazioni e molte altre ancora: il lusso di usare una lingua, per esempio, è per me importantissimo. E poi certo, l’accorgersi di piccoli accadimenti che normalmente non richiamerebbero l’attenzione, testimoniare del loro apparire, preservare la memoria, imbastire un racconto capace di collegare tra loro fatti che altrimenti sarebbero apparsi privi di nessi. Tutto ciò vale per la fiction come per la saggistica, e in fondo narrare non è altro se non legare insieme fatti che prima non esibivano connessioni visibili. Per me la letteratura deve aumentare la consapevolezza della vita. È come se dicesse a chi legge: state attenti, la vita è tutto quello che avete.
Torna in questo suo memoir una frase che lei aveva già seminato tra le righe del suo romanzo «Canada», e che ha preso da John Ruskin: «la composizione è un ordinamento di cose disuguali». A cosa si riferisce?

Mi riferisco a tutti quei sentimenti, come la felicità e la tristezza, che coesistono in modo non ovvio in una stessa persona, o alle piccole risonanze improprie di grandi eventi. Per farle un esempio che mi riguarda, quando mio padre morì prematuramente io ero un ragazzo, e di fronte a questa cosa enorme la mia reazione fu un vissuto personale di modestissime proporzioni. Accostare due accadimenti non scontati crea qualcosa di inedito che altrimenti non avrebbe mai luogo: quella di Ruskin è una considerazione per me molto importante, perché è così che noi formiamo il nostro io, ma non solo: è così che diamo forma a un universo sensato e ordinato per noi, ed così che ci rendiamo responsabili delle nostre azioni e di ciò che viviamo. Preferisco pensare in questi termini piuttosto che credere in una agenzia di controllo superiore, da cui tutti dipende,
Il famoso disegno Intelligente...
Già, quello… Visto che faccio lo scrittore, cerco di trarre elementi dalla quotidianità e di trasformarli in qualcosa di non scontato.
Qualche anno fa lei ha messo in bocca a Bascombe una sentenza secondo la quale il carattere sarebbe «una menzogna della storia e delle arti drammatiche». Dopo avere ripercorso nel suo memoriale la storia della sua crescita e del suo rapporto con i suoi genitori non crede piuttosto che il carattere sia una organizzazione difensiva?
Che idea radicale! Interessante, me la compro. Però, come lei può immaginare sono molto sospettoso circa quanto è sepolto nell’inconscio, e se c’è qualcosa che non riesco a dire tendo a pensare che non esista. Noi non abbiamo un’anima, giusto? E dunque il personaggio non è altro che il risultato della proiezione su di lui dei nostri comportamenti: deve essere una sintesi delle nostre memorie e del nostro senso del futuro, tanto da risultare plausibile per il resto del mondo. Fin qui, mi pare, possiamo essere d’accordo. Ma vorrei dirle un’altra cosa: non sono io che imparo dagli psicoanalisti, sono loro che imparano da me. Tutte le volte che si arrischiano a trarre categorie concettuali da materiali narrativi, inevitabilmente lasciano fuori qualcosa.
Eppure, nel dialogo fra due dei suoi personaggi (ancora nel racconto che dà il titolo alla sua raccolta titolata in italiano «Tutto potrebbe andare molto peggio») viene fuori che «Certe persone sono meglio come idee che come esseri umani». Lo dice Mrs. Pines a Bascombe, ma forse si potrebbe estendere questa considerazione a tutti i personaggi, non crede?
Mah, io direi piuttosto che l’ultima cosa che i personaggi sono è una idea. Prima di tutto consistono di un accumulo di dettagli, piccoli particolari discreti assemblati tra loro in modo inedito. Se e quando questo montaggio si costituisce in una unità credibile, solo allora i personaggi possono prestarsi utilmente a una concettualizzazione. Come tutti, anche loro nascono nel caos e alcuni ci rimangono. Io, per esempio, sembro un tipo a posto, ma in realtà mi ritengo già soddisfatto se la mattina riesco a allacciarmi le scarpe…
Dopo avere, almeno momentaneamente, abbandonato Frank Bascombe, lei ha dato vita al personaggio del quindicenne protagonista di «Canada», Dell, che è una delle sue voci narranti meglio riuscite, pur non somigliando a nessuna delle persone rievocate nel suo memoir. Da dove ha tratto questa voce?
La voce di un personaggio è l’esito di tutto ciò che risulta funzionale al romanzo di cui è protagonista: è l’insieme delle sue capacità di dire ciò che gli serve dire. Deve creare un suo vocabolario, scegliere il ritmo della sua parlata, decidere come mettere insieme le frasi. L’invenzione di una voce è il suono di un romanzo e come tale è, a mio parere, il suo elemento decisivo. In particolare, poiché i fatti che costituiscono la trama di Canada vengono raccontati a cinquant’anni di distanza, avevo bisogno di un protagonista capace di essere convincente sia come bambino che come adulto. E questa combinazione, insieme al carico di responsabilità che Dell deve portare su di sé, danno luogo alla specificità della sua voce narrante. Potrei riscrivere Canada più e più volte, un po’ come Pierre Menard riscriveva il Don Chisciotte, mi piacerebbe tanto.