In una delle pagine più penetranti dedicate a Baudelaire – al sonetto delle Fleurs du mal intitolato «A una passante» – Walter Benjamin suggeriva che, per il soggetto moderno, l’estasi risiede non tanto nell’incontro improvviso con l’oggetto del proprio desiderio – la donna che passa per le strade di Parigi, con il suo incedere maestoso – quanto piuttosto nell’«ultimo sguardo» scambiato con quella bellezza fuggitiva, inghiottita per sempre dalla folla. L’«incanto» e la possibilità stessa della poesia coincidono insomma, per Benjamin, con il momento del «congedo». Tra Leopardi e lo stesso Baudelaire si fa dunque intensa, in Occidente, la sensazione che la poesia si costituisca sempre più come un discorso pronunciato un attimo prima del distacco, a sancire il commiato da qualcosa. Si potrebbe partire da queste grandi premesse ottocentesche per abbozzare una sorta di genealogia della lirica come «parola estrema», e ricordarsi, più oltre, almeno di una grande raccolta di Wallace Stevens (The ideas of order, 1935), di una splendida poesia come «Waving Adieu, adieu, adieu», dove ogni fermata – scrive Stevens – diventa «un addio», in un mondo «senza più paradiso».
Proprio questa poesia di Stevens è ricordata dall’olandese Cees Nooteboom anche in un libro pubblicato qualche anno fa, Tumbas (2007, trad. it. Iperborea 2015), una passeggiata fra i sepolcri di grandi poeti e pensatori. Del resto la scrittura di Nooteboom era non di rado attraversata, già in passato, da un forte senso della fine, come in un passaggio del suo breve romanzo del 1991, La storia seguente, nel quale il protagonista – un professore innamorato delle letterature classiche – rimugina pensoso: «La parola “addio” si libra intorno a me e io non riesco ad afferrarla. Tutta questa città è un addio. Margine d’Europa, ultima riva del primo mondo…». Così Nooteboom a proposito di Lisbona, città in cui l’Europa saluta sé stessa. E altrove – nel diario del 2016 (533. Il libro dei giorni) – ecco fissato, in forma lapidaria, un sentimento della perdita che sembra avere un legame naturale con la lingua e con la scrittura: «le parole scomparse sono le parole sacre». Delineare questa breve cornice, nel leggere Nooteboom, potrebbe essere utile per arrivare preparati all’appuntamento con il suo lavoro più recente, il cui titolo è appunto Addio (postfazione di Andrea Bajani, Iperborea «Poesia», pp. 92, € 11,00). Un libro di versi, che in qualche modo scompagina anche le abitudini del più costante – e meritorio – editore italiano di Nooteboom, il cui interesse primario è invece la narrativa, fra viaggio e racconto. La raccolta – nell’ennesima, efficace traduzione di Fulvio Ferrari – segna forse il definitivo ingresso in quella che potremmo definire una seconda fase della ricezione italiana di Nooteboom: perché se gli anni novanta erano segnati soprattutto dalla prosa – da Il canto dell’essere e dell’apparire (Iperborea 1991) alle pagine di Verso Santiago (Feltrinelli ’94), fino all’Autoritratto di un altro (Crocetti ’98) – gli ultimi anni hanno finalmente visto farsi largo, anche dalle nostre parti, il Nooteboom poeta, del quale Einaudi ha reso disponibile prima un’ampia scelta di liriche (Luce ovunque 2012-1964) e poi un’esile quanto preziosa plaquette come L’occhio del monaco (2016), entrambe tradotte dallo stesso Ferrari.
Cosa rappresenta questa nuova raccolta di Nooteboom? Probabilmente è un’intensa meditazione sull’«enigma» dell’esistere, più che un intervento sui tempi che ci troviamo a vivere. Ciò comporta che, in qualche modo, questi versi debbano essere letti anche in contropiede rispetto allo stesso sottotitolo che li accompagna: Poesia al tempo del virus. Perché, certo, l’anno difficile che stiamo attraversando – con la pandemia e la sua crudeltà – non può non lasciare il segno («sarebbe strano se la poesia non se ne curasse», annota l’autore nei brevi appunti di chiusura), generando spesso versi crudi, in una specie di surrealismo che ha perso ogni accento giocoso, rappresentando la durezza del mondo: «Qui non c’è amore, solo violenza, / solitudine, malinconia, il profilo di / una bestia, un uomo in compagnia della sua / ghigliottina, un bambino senza bocca. // Chi sono questi esseri, abbrutiti, / malvagi, spaventati, visione di un / mondo pericoloso, sospeso tra il / bianco e il nero della notte…». I riferimenti alle tragedie del momento si affacciano tuttavia in maniera schermata: chi scrive affronta il male (il «dolore infinito / che sale dalle vittime»), ma «l’abito della notizia», la cronaca e il suo rumore di fondo rimangono per così dire nel retrobottega, non hanno accesso immediato allo spazio della poesia. Uno spazio che resta invece templare, protetto. Il primo indizio, in tal senso, è forse l’uso della forma chiusa, come già nell’Occhio del monaco: tre quartine e un verso isolato, che si ripetono sempre, nelle 31 liriche del libro, e insistono a definire la lirica come discorso diverso, lingua altra. Come per l’impulso a cantare sempre un addio, siamo di fronte a un’altra attitudine naturale di tanta poesia, perfettamente interpretata da Nooteboom: l’impulso a uscire dalla contingenza e a liberarsi della dimensione storica, nonostante la stessa poesia sia poi la più fragile, la più umile costruzione di chi si trova perennemente condannato al tempo, l’essere umano.
È vero che la storia si infiltra sin dall’inizio del libro, con le immagini di una «guerra che sempre ritornava» e delle «voci di un tempo», ma a dominare, insieme ai residui dell’esistenza umana, è il grande affresco naturale abbozzato da Nooteboom, che era ben visibile anche nel libro precedente. Non è un caso che l’orizzonte sia popolato di volatili e alberi, di acque e piante, come l’amatissimo cactus, che è anche il protagonista del già citato Libro dei giorni: il cactus «figlio della tempesta» e in attesa del «fiore», re di un «giardino» in cui «la durata non ha voce» e il «tempo», appunto, «non ha comando», sembra cioè dissolversi come materia inconsistente. In questo quadro creaturale – e sia pure una creaturalità raggelata, nordica – l’uomo è semplicemente un «animale che prova a pensare», la bestia strana che coltiva il privilegio e allo stesso tempo la colpa del linguaggio. È quindi del tutto coerente che una poesia nata nelle ferite del presente si volti poi all’indietro, arretri fino alle parole antichissime del poema sulla natura del greco Empedocle, impegnato a narrare le origini del reale così come della specie umana, ed esplicitamente citato nel quarto testo della prima sezione: versi che oggi, innestati sul tronco di una voce contemporanea, suonano brutalmente visionari («tante guance cresciute / senza collo, braccia nude, private // delle spalle, vagano qua e là, occhi / solitari privi di fronte errano intorno…»).
Nell’Occhio del monaco gli animali – la martora, o la cornacchia – potevano a loro volta interrogare il perché delle cose: è ancora più suggestivo, allora, che in Addio la magica sovrimpressione fra soggetto e vita animale si compia fino in fondo, e l’io lirico possa rispecchiarsi, nell’ultima poesia, nella figura di un «pallido cane» che avanza «cieco». O che, prima ancora, sia un uccello a fare da controfigura del poeta, mentre scruta i segreti di un cosmo che nessuno può penetrare: «tranne un airone solitario, / che tutto può udire, pensieri / nascosti, desideri. L’airone solitario / ero io, e solo accanto all’acqua / annotavo quel che vedevo, che sentivo / testa dopo testa».
Non mancano comunque, qua e là, punti dove la voce di Nooteboom può anche abbandonarsi, senza difese, alla tenerezza per il proprio passato, tornando con il pensiero ai suoi morti: è la voce di un viandante che «tante strade / ho percorso, sempre in cerca di qualcosa / che doveva trovarsi più lontano…». Questo poeta umano, troppo umano, convive tuttavia prodigiosamente con un Nooteboom che osserva ormai la vita come dall’alto, da un pianeta lontanissimo, e affratella in un unico destino piante, animali e persone. La sua poesia non ha, in effetti, solo l’aspetto di un pur magnifico incantesimo mentale, ma trattiene piuttosto la forza e l’ineluttabilità degli elementi, la sapienza minerale di un lago, di una montagna millenaria: è un vasto paesaggio dove i giorni sfumano come nebbia, dove le storie effimere delle donne e degli uomini si confondono «con i colori della sabbia e della paglia».