La decisioni del presidente del Consiglio, come ha fatto sapere la stessa presidenza nei giorni scorsi, «saranno basate sulle prerogative a lui attribuite dalla legge ed ispirate alla salvaguardia dell’autonomia dell’istituto».

Così il ministro Padoan chiudeva la polemica politica della settimana. Si trattava di una mozione di sfiducia verso il governatore della Banca d’Italia a firma Pd, ispirata dal segretario Renzi, ed avversata da (in ordine sparso) il governo, il Corriere, Repubblica, Napolitano, Zanda, Veltroni, Draghi, Mattarella, Berlusconi: tutti a difesa di Ignazio Visco (non pervenuto Topolino, l’orso Yoghi e l’Onu).

Il segretario annaspa e capitola. Era dai tempi di Fazio che la dirigenza di Bankitalia non arrivava all’opinione pubblica.

I notisti politici si incaricheranno di portare avanti sontuosi interrogativi di calibro amletico: l’ha fatto (Renzi) come mossa elettorale? Per mostrare che il Pd non va a braccetto con le banche? Per mettere un suo uomo alla prestigiosa carica? Lasciando sullo sfondo le questioni reali.

L’accusa consiste nel non aver vigilato diligentemente sul sistema bancario. Mentre le politiche monetarie sono salda competenza della Bce, alle autorità nazionali spetterebbe la sorveglianza sulle banche.

Ma sono diverse istituzioni a dover vigilare: Bankitalia, appunto, e la Consob; la magistratura normamente interviene a cose fatte.

Sicuramente la fitta serie di scandali non depone a favore della efficacia dei meccanismi di sorveglianza. Ma occorre farsi una idea più chiara dell’assetto generale, disegnato da tre caratteristiche fondamentali.

Primo: le banche sono state in gran parte privatizzate negli anni Novanta, è stato dato loro un assetto al nuovo panorama di competizione concorrenziale nella nuova Europa di Maastricht; sbianchettata la funzione pubblica del credito, rimane solo la vigilanza.

Secondo: conformemente alla direttiva europea, la nuova legge bancaria del 1993 cancella la distinzione fra banche di deposito e di investimento (fra chi custodisce i soldi dei risparmiatori e chi fa operazioni più rischiose), stabilita ai tempi di Roosevelt, riaprendo la porta a tanti problemi che si erano già manifestati nella crisi degli anni Trenta.

Terzo: la indipendenza della banca centrale affermatasi negli anni Ottanta è stato un cavallo di battaglia dei più incalliti liberisti per isolare un ganglio essenziale di potere dal controllo democratico (Andreatta infatti invoca la «separatezza fra i poteri legislativo, esecutivo e finanziario») e consegnarlo ai mercati finanziari. Il totem della indipendenza (o meglio: irresponsabilità) di Bankitalia con tutta la retorica della responsabilità istituzionale niente altro è se non un astuto marketing per mascherare il fatto che alla subordinazione governativa si è sostituita un mission conforme agli interessi finanziari internazionali.

Da aggiungere quello che non è un dettaglio irrilevante: dopo che nei Novanta la politica monetaria è passata alla Bce, negli ultimissimi anni si sta compiendo una simile migrazione anche per la vigilanza, con la cosiddetta unione bancaria; con essa le banche centrali dei paesi membri diventano sempre più articolazioni locali di un sistema unitario (sempre più lontano dal controllo democratico); con la vigilanza divisa fra le (cinque) autorità nazionali ed europee, senza una grande chiarezza nelle competenze: un caos.

Si vede quindi come la polemica attuale sia estremamente miope e di piccolo cabotaggio, allegramente inconsapevole del quadro generale; quello in cui i decisori politici (eletti) avrebbero accettato la loro autodeposizione da funzioni centrali lasciando che l’incerto responso delle urne venisse sostituito dal «permanente plebiscito dei mercati». Quando il banchiere Tietmeyer scriveva queste parole (1998) si riferiva alla autonomia della Banca centrale.