Quella di Almada, del suo aspetto urbanistico, della sua amministrazione, del suo festival di teatro giunto quest’anno alla trentesima edizione, è davvero una storia esemplare. La città, posta sul Tago proprio in faccia a Lisbona (cui la collega il grandioso Ponte XXV aprile intitolato al giorno della liberazione dal salazarismo nel 1974, ma anche un’instancabile via vai di traghetti da una riva all’altra del fiume, da Cacilhas a Cais de Sodrè) era la sede dei gloriosi cantieri navali portoghesi, i cui lavoratori sono sempre stati lo zoccolo duro della sinistra comunista nel paese.

Oggi i cantieri sono chiusi anche qui, mentre la città è cresciuta moltissimo, con le vecchie strade del centro circondate da palazzi moderni e altissimi (e un jumbo tram che con tre linee interseca tutto il centro, dall’università fuori perimetro fino al porto). Ma Almada, divenuta di fatto città dormitorio della classe mediopiccola di Lisbona, non ha abiurato affatto alla propria tradizione di sinistra. Anzi è tra le più grandi di quelle amministrate dai partiti di tradizione operaia. È governata da qualche anno da Maria Emilia Neto de Sousa, una donna instancabile e colta, che oltre a lavorare sodo sul piano regolatore e sui trasporti, investe una quota rilevante delle finanze locali in cultura. Anche ora che il Portogallo sembra messo peggio dell’Italia, sempre stretto ai «PIGS», e con una crisi anche politica che le dimissioni di mezzo governo fa sembrare non ricomponibile. Sono precipitati quest’anno i contributi ministeriali a tutte le attività culturali, ma la città di Almada, anche in calo verticale di finanziamenti centrali e di sponsor, ha resistito.

Perché la storia recente della città è strettamente intrecciata al suo teatro pubblico e alla sua compagnia stabile, e al festival che questa ha inventato, creato e fatto crescere fino ad essere l’attuale importante vetrina non solo europea, pur senza la grandeur di Avignone e la densità ossessiva di Edimburgo. Il festival nasce quindi dal teatro di Almada, che vanta da qualche anno una sede nuova e tecnologica, tutta dipinta e piastrellata di azul, cuore e motore della manifestazione, assieme alla attigua scuola pubblica, trasformata in estate in mensa festivaliera, oltre che luogo d’incontro, scambio, bevute e progetti futuri.

A costruire piano piano questa macchina ammirabile, è stato un artista, Joaquim Benite, «regista, pedagogo e combattente» come viene ricordato oggi qui, a pochi mesi dalla morte. Per lui la ricerca artistica è proceduta insieme alla militanza antifascista lungo gli anni bui di Salazar. Aveva conoscenza e familiarità con intellettuali e artisti di tutta Europa, dai francesi a Strehler, e impersonò l’onda più forte del rinnovamento dopo aver combattuto per il ritorno alla democrazia. 29 anni fa il risveglio prese corpo in questa manifestazione nata per mettere in comune un teatro che cementasse e risvegliasse le coscienze. Qui si sono visti i primi teatri sudamericani in Europa, ma anche quelli africani grazie al desiderio di ribaltare in positivo l’eredità coloniale. Ora che lui non c’è più (negli ultimi anni, benché sulla sedia a rotelle, non aveva mancato un appuntamento) è un suo assistente, Rodrigo Francisco, formatosi alla sua scuola, a prenderne l’eredità.

Di una giovinezza inimmaginabile da noi (32 anni), Francisco ha percorso qui tutte le tappe del suo apprendistato: ufficio stampa, drammaturgo e regista, ha in preparazione con la compagnia di Almada un progetto su Alvaro Cunhal, mitico segretario del partito comunista portoghese. La pedagogia resta un elemento forte qui dell’arte scenica. Anche se il giovane direttore non è certo «trinariciuto», ma assai attento ai rapporti con l’Europa e al di là dell’Atlantico: per l’anno prossimo prepara un exploit dell’ultima generazione di teatranti argentini, pressoché ventenni, mai sentiti da noi, per i quali pare che già Rafael Spregelburd suoni «vecchio». E non a caso per l’Italia quest’anno ha invitato ad Almada Ricci&Forte con Macadamia: solo qualche spettatore è uscito prima della fine, la maggior parte sono rimasti entusiasti. È un pubblico attento e ricettivo quello di Almada, evidentemente educato negli anni, e senza alcuna connotazione borghese o generazionale, come capita spesso di osservare da noi. O di addetti ai lavori, come capita ad Avignone (per non parlare di quelli aristocratici di Salisburgo o degli intellettuali melomani di Aix en Provence). Qui il pubblico è davvero «normale», nel senso che rispetta la composizione differenziata della città, e di Lisbona che costituisce del pubblico, il secondo serbatoio. Oltre ad ospitare nei suoi teatroni storici, come negli istituti stranieri di cultura, molte apparizioni del festival.

Per noi italiani il dato è tanto più significativo, oggi che in Italia i festival sembrano ridursi di presenze ed ambizioni, qualcuno fino all’ectoplasma. A parte quelli «ricchi» di Napoli e Spoleto, che continuano a cucinare sempre la stessa minestra, magari ricorrendo ai grandi nomi, che per altro sono miseramente affondati a Napoli, mentre a Spoleto si sono limitati a confermare la grandezza di Ronconi, Stein e Wilson se mai ce ne fosse bisogno. A proposito di Peter Stein, al festival di Almada c’erano ben due suoi spettacoli, entrambi ai limiti della perfezione cui il maestro tedesco ci ha abituato da molti decenni. Klaus Maria Brandauer era, in tedesco, l’interprete del beckettiano Ultimo nastro di Krapp. La faccia cosparsa di biacca, la parrucca riccioluta e gli abiti colorati facevano di lui un perfetto clown della memoria e dell’esistenza, delle contraddizioni e dei piccoli piaceri rubati, in quell’impossibile bilancio di una giovinezza che si apre ora, dopo tante esperienze, sul nulla. L’altro titolo proposto da Stein era un classico del vaudeville francese, Il premio Martin di Labiche, tradimenti, inganni e ambizioni cochon di una borghesia che si era appena insediata al potere di Francia. Il congegno è ad orologeria, il respiro da grande classico, le risate sicure e l’amarezza infinita.

Più caricaturale invece, che non eversivo come potrebbe, Victor o i bambini al potere di Vitrac, scritto cinquant’anni dopo contro quella stessa borghesia parigina. I toni sono molto accentuati, e rischiano di non centrare l’obbiettivo. A metterlo in scena un nome che paradossalmente ora di potere ne ha molto in Francia: Emmanuel Demarcy-Mota, direttore del Theatre de la ville, e ora anche a capo del Festival d’Automne.

Sempre nell’intento pedagogico di scoprire le radici del teatro contemporaneo, un grande focus era puntato su Ibsen, che ne è uno dei padri nobili. Spettacoli dalla Scandinavia, e riletture portoghesi, con particolari zoom sulle sue mitiche figure femminili, da Nora a Hedda. Non mancava quel sano cordone ombelicale con l’Africa, anche se attraverso la versione francese di Hassane Kassi Kouyaté: O Papalagui è un misto di umorismo e malizia per far passare attraverso una favola i mille misteri d’Africa, da quelli religiosi a quelli sociali. L’inizio di una riflessione affidata poi ad ogni spettatore. Come a suo modo fa Luis Miguel Cintra, il più grande attore portoghese, consacrato nel mondo dai film di Oliveira. Stanco delle modernizzazioni forzate dei classici antichi, compie l’azione contraria: andar rintracciando nelle forme della scena portoghese del 700, problemi e luoghi comuni di oggi. Risultato di gran classe, dietro la leggerezza apparente, che fa di Ai amor sem pès nem… un dizionario esplosivo di convivenza. Una mission che può sintetizzare bene l’intero motivo di successo del festival di Almada, e della sua città.