Le primarie americane assomigliano sempre di più al copione di un serial degno di House of Cards.  Nell’ultimo colpo di scena di una campagna elettorale sempre più singolare, Mitt Romney è sceso in campo con un feroce affondo a Donald Trump.

In un discorso che non ha precedenti, l’ex candidato repubblicano del 2012 ha ferocemente attaccato l’attuale presunto candidato del proprio partito con una straordinaria geremiade che sancisce la definitiva rottura della coalizione che ha sostenuto la destra americana per più di 70 anni.

Abbandonando ogni residua riserva della gerarchia di partito che rappresenta, Romney è andato vicino a tacciare Trump di alto tradimento (“accusa Bush di aver mentito ed elogia Putin”) avvertendo di un possibile “suicidio della democrazia” se dovesse confermarsi candidato. Una retorica senza precedenti che ha esposto alla luce del sole la spaccatura fra una base blue collar inferocita e galvanizzata dal leader populista e le élite conservatrici vicine a Wall Street, che da ieri è ufficialmente insanabile.

Romney si è scagliato contro Trump apostrofandolo come impostore e squilibrato “le cui farneticazioni non debbono essere sposate al potere”. Il miliardario dello Utah ha attaccato il “collega” su razzismo e misoginia  e le “assurde esternazioni da terza elementare”, esortando sostanzialmente gli elettori repubblicani a non votarlo perché la sua politica estera rischierebbe di scatenare una guerra mondiale e quella economica una nuova recessione.

Un intervento che ha dato però anche la misura della esasperazione dell’establishment che per bocca di Romney ha ufficializzato l’appello per un boicottaggio anti-Trump e quindi per una estrema resistenza nella convention. In quella sede le forze “moderate” e istituzionali proverebbero dunque a serrare i ranghi e imporre presumibilmente uno degli avversari ancora in lizza o un nuovo candidato (secondo alcuni lo stesso Romney – ma si fanno i nomi anche dello speaker Paul Ryan o dell’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg).

Una strategia che rischierebbe di devastare il partito. Il solo fatto che si stia discutendo in questi termini mentre Trump continua a ricevere l’indiscutibile consenso degli elettori è una anomalia surreale che equivale a un necrologio del Gop.

Nel discorso della vittoria di supertuesday Trump aveva aperto al partito sostenendo di poter “unificare i repubblicani” e ampliare la base per battere Hillary. Ma agli occhi dei tradizionalisti il suo progetto equivale a uccidere il partito di Nixon, Reagan e Bush per salvarlo.

Il discorso di Romney ha di fatto rappresentato una porta sonoramente sbattuta in faccia alla sua proposta, una risposta insindacabile da parte della vecchia guardia che non tollera l’ascesa di un opportunista “ambiguamente conservatore”.

Trump infatti è del tutto post-ideologico, capace di mobilitare pulsioni recondite di un elettorato che si sente esautorato da Obama e da un presente che li ha spiazzati economicamente e demograficamente. Perdipiù Trump smaschera il cinismo con cui il partito dell’era Romney o Bush (o l’attuale leadership del congresso) ha da sempre sfruttato l’ira dei poveri cristi o dei teocon o comunque del “uomo qualunque” per vincere elezioni e perpetuare le oligarchie economiche di sempre.

Nei comizi e nei dibattiti Trump distilla tutto il sedimentato spregio per questo status quo nell’epiteto “solito politico”, per il sommo piacere dei suoi sostenitori.

Malgrado questo, Romney ha deriso le promesse di Trump come “fasulle quanto i diplomi della Trump University” (i seminari di tecniche immobiliari venduti per televendita che gli sono valse una querela per truffa ). Ha denunciato la rabbia che incita, come forza distruttiva “che ha trascinato altri paesi nell’abisso”; lo ha fustigato come cattivo esempio “per i nostri figli e nipoti”.

Il fatto che avesse ragione non ha potuto dissimulare che si è trattato di un attacco kamikaze delle antiche gerarchie.

Una carica disperata quanto inefficace, soprattutto dato il pulpito da cui è provenuta la predica.

Per accusare Trump di essere un figlio di papà è stato scelto il miliardario colto in flagrante quattro anni fa mentre disprezzava in un elegante ricevimento “quel 47% di americani che neanche paga le tasse”, famigerato apprezzamento sui ceti meno abbienti che gli costò l’elezione contro Obama.

Pochi politici insomma proiettano più di Romney l’immagine di oligarca distante, rimosso dagli interessi del popolo il cui rovesciamento è la stessa ragione d’essere del trumpismo.

Trump ha prevedibilmente risposto ricordando come Romney quattro anni fa avesse implorato lo  stesso Trump per il suo endorsement  (“se glielo avessi chiesto si sarebbe messo in ginocchio”) e definendolo – non senza cognizione di causa – un perdente invidioso e ipocrita.

Con lo zoccolo duro di Trump, Romney ha certamente finito per fare la figura dell’aristocratico inorridito per il pessimo galateo del convitato alla festa. Diffcilmente inoltre il suo discorso avrà un effetto concreto contro un personaggio che ha dimostrato di trarre ulteriore forza da ogni attacco.

Ma nessun discorso ha mai fotografato come quello di ieri la transizione epocale di un partito e della politica americana verso mete ignote.