Occorre segnalare che, da qualche tempo, la questione della politica industriale in questo paese sembra tornata di moda. Se guardiamo alle varie pubblicazioni possiamo tracciare alcuni tratti stilizzati delle politiche industriali che potremmo adottare, così come valutare i successi-insuccessi dei provvedimenti fino ad oggi adottati. Se poi consideriamo che dietro le politiche industriali troviamo la questione del lavoro (forse è il caso di parlare di non lavoro), le analisi sulla politica industriale assumono una dimensione strategica anche dal punto di vista sociale e pure per il credito che, con fatica, assolve al suo compito storico in ragione di una crisi finanziaria complicata. Difficoltà che si aggiunge alla contrazione degli aiuti di stato alle imprese, scesa al di sotto di quella di molti paesi. Aiuti che a loro volta, tuttavia, non hanno mai confermato una loro efficacia.

Dal volume di Patrizio Bianchi La rincorsa frenata, alla Imprese italiane nella competizione internazionale a cura di Sergio de Nardis, a La valutazione degli aiuti alle imprese edita dai ricercatori della Banca d’Italia, ai Fatti in cerca di idee del 2010 e Le strategie per la crescita – rapporto Met, del 2015 di Raffaele Brancati, al Piano del lavoro della Cgil con i suoi vari approfondimenti – solo per citarne alcuni – si registra una «maggiore» attenzione al tema, che potrebbe sembrare inedito per un paese che ha sempre lasciato al mercato e alle imprese lo sviluppo industriale.

Il che non vuol dire che siamo alle porte di una politica economica attenta ai fattori che assicurano la qualità dello sviluppo e dell’economia reale. Tuttavia, questo interesse segnala una riconosciuta e ormai pluriennale assenza di politica industriale e, dall’altro, la difficoltà di una sistema produttivo nazionale a tenere il passo nel consesso internazionale, sempre più complesso e competitivo. Le imprese hanno imposto la riduzione del costo del lavoro come scelta di una competitività basata sui costi e una politica degli incentivi per la spesa in ricerca, dimenticando le critiche, anche della Banca Italia, sugli effetti negativi di questo tipo di interventi.

In uno scenario così, il contributo di Brancati è quello di impostare delle ipotesi sulla base di una indagine sul campo che coinvolge almeno 25mila imprese. Uno studio che conduce da anni, senza il sostegno-interesse delle autorità pubbliche. Brancati sottolinea che «ogni indicatore sintetico pubblicato periodicamente sulla competitività, sulla facilità di fare impresa, sugli oneri fiscali, sulla capacità innovativa, sull’impegno di risorse in ricerca e sviluppo da parte di aziende industriali nazionali e su molti altri aspetti, rappresentano univocamente un quadro italiano, in rapporto agli altri paesi, che sembrerebbe incompatibile con qualsiasi possibilità si sopravvivenza in mercati globalizzati».

Esistono anche segnali diversi e in controtendenza di alcuni settori, ma siamo alla resilienza. Il rapporto, giustamente indaga il buono che abbiamo in Italia su cui si potrebbe intervenire; sono l’esito di comportamenti «endogeni genuini», cioè partono dalle stesse imprese. Queste stesse hanno adottato politiche coerenti con quelle dei concorrenti: ampiamento produzione, investimenti, ricerca e sviluppo e penetrazione di nuovi mercati, mentre la chiusura delle imprese sembra dovuta ad una cronica sofferenza finanziaria e non sempre per carenza di ricerca e sviluppo. Rimane il problema della collaborazione con le Università e con la Ricerca pubblica alimentata da incentivi fiscali. Sul punto, registriamo un eccesso di fiducia su questo tema. Una impresa non dovrebbe fare ricerca e sviluppo in ragione del costo marginale (incentivo) di quella spesa. Se ciò è accaduto, vuol dire che qualcosa nel sistema produttivo non funziona e l’innovazione senza ricerca non ci sembra un terreno strutturalmente possibile. A questo proposito, utilizzando un indicatore del report, si osserva che l’attività di ricerca delle imprese considerate è ancora lontana dalla situazione pre-crisi. Dunque nuovi prodotti come esito di una ricerca e sviluppo così debole?.

Sul tema occorre molta cautela perché una parte consistente dei nuovi prodotti sono, in realtà, conoscenze realizzate da altri paesi che noi adattiamo (Lucarelli, Palma, Romano, Moneta&Credito, 2013). In fondo, è la stessa critica che Brancati fa della così detta Global Value Chain. Possiamo migliorarla: il rapporto Met fa una riflessione sul tema, ma rimane difficile fare dei passi in avanti dal momento che, come dice Brancati, «in una fase di profonda crisi internazionale, in Italia manca una visione strategica in grado di sostenere la parte di sistema produttivo più sana, quella che quotidianamente cerca di innovare e di crescere». Se poi confrontassimo la nostra competitività generale con quella dei paesi con cui dobbiamo misurarci, la conclusione sarebbe ancor più tragica e mostrerebbe il divario (recuperabile?) dell’industria italiana.

L’internazionalizzazione del fatturato delle imprese analizzate, ormai prossimo al 25%, è un fenomeno importante di allargamento del mercato, ma anche la risposta obbligata se consideriamo le politiche di austerità interna che riducono la domanda interna oltre ogni ragionevolezza. A queste condizioni, le imprese nazionali, come quelle europee, tentano di compensare la caduta di fatturato interno via esportazioni. Un buon segnale, ma insostenibile nel lungo periodo.

Questa lettura internazionale è, peraltro, centrale anche in relazione alle contraddizioni con l’ottimismo ufficiale che deve essere misurato non sulla base delle variazione dei decimali di crescita, ma dal confronto con l’andamento degli stessi indicatori negli altri paesi.