Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione – sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese -, dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.

In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo.

La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo ‘denaro gratuitamente per tutti’, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode».

Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.

L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.

RIPRODURRE OGGI un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?

Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.

Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:

  1. Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
  2. Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
  3. Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
  4. Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.

QUI VA RISCOPERTO KEYNES e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.

Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).

Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%.

Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.

Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».

Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.

E PROPRIO COLLEGATA al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.

All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali : quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato.

O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).