Mentre la giostra sul nuovo governo continua il proprio giro e Lagarde (Fmi) e Moscovici (Commissione Europea), a giorni alterni, ricordano a tutti l’ obbligatorietà delle politiche d’austerità, nessuno sembra voler prendere atto dei nodi strutturali di una crisi che richiederebbe, finalmente e dopo decenni di accondiscendenza, di scontentare i famosi «mercati». Proviamo a farlo noi, indicando quattro proposte, necessarie anche se non esaustive.

Istituire un audit partecipativo e indipendente sul debito pubblico nazionale, che definisca quali debiti sono illegittimi, odiosi o non sostenibili e, annullandoli, metta fine ad una trappola che ci ha visti pagare, dal 1980 ad oggi, oltre 3.400 miliardi di interessi su un debito che continua ad essere di 2.250 miliardi, in un circolo vizioso che, utilizzando il debito come “shock”, permette la deregolamentazione dei diritti sociali e del lavoro, la mercificazione dei beni comuni e la privatizzazione dei servizi pubblici.

Separare le banche commerciali dalle banche d’investimento, definendo in maniera netta l’impossibilità di commistioni fra le due tipologie. In questo senso, le banche commerciali devono divenire le sole istituzioni finanziarie autorizzate a ricevere depositi dai risparmiatori e ad avere accesso al sostegno pubblico per la liquidità e, nel contempo, devono avere il divieto assoluto a condurre ogni genere di attività sui mercati finanziari; al contrario, le banche d’investimento non devono avere titolo ad alcuna sottoscrizione pubblica, mentre dovranno avere una regolamentazione per legge in merito al rapporto tra fondi propri e attivi totali, al fine di limitare l’eccesso di leva finanziaria speculativa.

Tra le due tipologie di banche dev’essere vietato qualsiasi rapporto creditizio, in modo che in nessun nodo del circuito finanziario vi sia connessione fra le stesse.

Vietare la socializzazione delle perdite, ovvero che autorità pubbliche garantiscano con fondi pubblici debiti privati, i quali devono essere al contrario posti a carico dei maggiori azionisti delle banche (ci sono Paesi come l’Ecuador che hanno inserito questo principio all’interno della Costituzione).

Socializzare la gestione del risparmio postale. Le misure sopra accennate, per quanto impattanti, non intaccano tuttavia la posizione di predominanza del privato nel sistema bancario (assoluta nel nostro Paese, che è passato dal 74,5% di controllo pubblico del 1990 all’azzeramento attuale). Senza una nuova finanza pubblica, infatti, nessuna trasformazione del modello economico e produttivo sarebbe possibile e le decisioni di breve e lungo termine sulla società rimarrebbero comunque appannaggio delle lobby finanziarie.

Il risparmio postale, gestito per oltre 150 anni con finalità pubbliche e sociali da Cassa Depositi e Prestiti, è oggi, con l’avvenuta privatizzazione di quest’ultima, utilizzato per favorire la svendita del patrimonio pubblico e la privatizzazione dei servizi pubblici locali, oltre che come “carburante” per operazioni finanziarie di tipo privatistico sui mercati. Risulta più che mai necessario scindere Cassa Depositi e Prestiti e destinare la parte relativa al risparmio postale -pari a 250 miliardi- al finanziamento a tassi agevolati degli investimenti territoriali -pubblici e sociali- decisi attraverso percorsi partecipativi delle comunità locali.

Si tratta, di fatto, di porre l’accento su un’unica domanda di fondo: vengono prima i diritti fondamentali delle persone o i profitti delle lobby finanziarie multinazionali? Senza provare a dare una risposta, le forze politiche potranno continuare a litigare sul colore del pallone o la forma delle bandierine del calcio d’angolo, ma partita, punti e classifica continueranno ad essere stabilite dai soliti noti.