Gli inventari soffrono in genere di un immeritato discredito. Eccezion fatta per studiosi e collezionisti, il grosso del pubblico non esita ad attribuirgli l’anfanante erudizione di quei i lavori specialistici fatti per ispirare un’ammirazione fredda e contegnosa. Lo stesso Tommaseo-Bellini (il dizionario che D’Annunzio teneva alla Capponcina) riporta fra i significati di «inventario» quello spregiativo di «enumerazione arida, tediosa, minuta». Eppure dalla raccolta di schede e documenti, dal loro semplice accostamento si emana alle volte più vivo calore che non da certe pagine di critica propriamente detta: come se gli oggetti, per lungo tempo separati, nel trovarsi finalmente riuniti, si abbandonassero alla letizia di un canto unisono.
È quel che accade ai disegni (bozzetti scenografici, schizzi d’abiti e di costumi) del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino che Moreno Bucci dal 2010 sta inventariando in splendidi volumi, impressi, con la valentia consueta, dall’editore Leo S. Olschki. L’ultimo, in due tomi, riguarda il decennio 1963- 1973 (pp. XXXVI-790, con 2333 figg. a colori nel testo, euro 195,00). Si badasse soltanto alla lista degli artisti le cui opere sono state in quest’occasione ritrovate e riprodotte, vi sarebbe già di che stimolare i più inappetenti: Corrado Cagli, Mino Maccari, Emanuele Luzzati, Pier Luigi Pizzi, Piero Tosi, Giulio Coltellacci che si aggiungono ai Casorati, De Chirico, Clerici, Scialoja dei libri precedenti; chi consultasse, tuttavia, questo inventario per ricercarvi degli inediti d’artista sbaglierebbe, giacché, ammonisce Bucci, non di «quadri in miniatura» si tratta («non di dei ‘Soffici’ o dei ‘Gianni Vagnetti’») bensì di «disegni di teatro, disegni per la musica, la danza, la prosa». Idee visive, insomma, le quali avanti che incarnarsi in opere compiute, avrebbero dovuto ancora impastarsi di altra creta, cioè, fuor di metafora, relazionarsi con la coreografia e con la musica e con l’idea che di questa si andavano facendo il direttore d’orchestra, i cantanti e il regista. Perciò il curatore ha voluto che ai bozzetti si accompagnassero schede meticolose nelle quali si potessero leggere i nomi di quanti, di volta in volta, presero parte alla creazione dello spettacolo.
Ed è un moto perpetuo di riverberi. Se, per esempio, corriamo all’anno 1957, troviamo i plumbei disegni che per l’Ernani realizzò Andreas Nomikos: ecolalie perpetue di plumbei loggiati, alberi magri e tortuosi come crepe, stanze tese in ogive senza fine; tali idee sono certo dell’artista ma dialogano anche con l’interpretazione del direttore Mitropoulos che, col serrare i tempi musicali, strinse violentemente la partitura in accenti corruschi e frementi di nubifragio. Allo stesso modo le scene di Jean-Pierre Ponnelle per la Cenerentola rossiniana del 1971, tanto simili a certi capricci rocaille di Lepautre, e la direzione di Abbado, che tornò sul già eccellente modello interpretativo di un Vittorio Gui per acquarellarlo con le sue personali doti di levità, di lirismo e di fantasia, si illuminano reciprocamente. Ma, oltre che dalla fossa orchestrale, i disegni e i bozzetti teatrali del Maggio Musicale ricevono luce dai molti eventi che accompagnarono le stagioni, come accadde nel 1964 allorché Vlad, da poco nominato direttore artistico del teatro, volle dedicare all’espressionismo il festival di quell’anno dimodoché si ebbero, contestualmente all’esecuzione del Wozzeck di Berg, di Erwartung e Die Gluckliche Hand di Schönberg, mostre e retrospettive sul cinema espressionista e convegni di studi interdisciplinari sulla pittura e la letteratura dell’epoca. Si vide allora anche Luzzati, questo nostro personalissimo Chagall, baloccarsi con l’espressionismo mentre ideava le scenografie per Il Mandarino meraviglioso di Bartók. Ecco insomma tutti questi documenti, così copiosamente inventariati, ricomporsi in un’unità piena, al modo che fanno tra loro le gocce del mercurio, e dai loro nessi sprigionarsi una vitalità, una plenitudine d’echi che proprio non potrebbe immaginarsi in quella «enumerazione arida, tediosa, minuta» che diceva il Tommaseo-Bellini.
Come accade spesso alle opere acribiose inoltre, I Disegni del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino è un atto di sobrio e composto affetto. Affetto per l’antica istituzione musicale, per i luoghi che l’hanno ospitata, per gli uomini che vi hanno lavorato: affetto dell’autore, che, come quello di Cordelia la terzogenita di Lear, non ha voluto esprimersi in ridondanti discorsi («Appare evidente – si legge succintamente nella premessa – che il curatore si è attenuto alla massima oggettività dei dati, anche rispetto alle proprie opinioni»); affetto dell’editore Olschki che ne ha intrapreso la stampa. E se si vuole averne la prova, si aprano le pagine relative al 1966, l’anno dell’alluvione di Firenze: nessun commento, solo sei commosse immagini dei disastri prodotti dalle acque; dalla brochure dell’Incoronazione di Poppea, nella scheda seguente, si riporta: «questo programma è stato realizzato grazie alla ostinata volontà di ricostruzione e ripresa della Tipografia STIAV sommersa e devastata dall’inondazione». Dal medesimo amore per Firenze e per le sue istituzioni culturali nascono, credo, questi volumi.