Il G20 di Baden Baden, in Germania, si è chiuso con uno stringato comunicato conclusivo senza alcun impegno sul protezionismo e i cambiamenti climatici. L’incontro dei 20 ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali è terminato senza parlare di free trade, il che è un po’ come se un documento del Vaticano dimenticasse di citare lo Spirito Santo.

È l’effetto Trump, ma è presto per dire se davvero le promesse del nuovo presidente di scatenare una guerra commerciale con la Cina saranno mantenute: probabilmente qualcuno dei suoi collaboratori gli sta spiegando che la Borsa di Wall Street andrebbe a picco se davvero Washington imponesse dazi del 35% sulle merci importate dalla Cina.

In realtà Donald Trump si trova a fronteggiare gli stessi problemi che aveva di fronte Barack Obama e sta cercando, a tentoni, una risposta diversa. Questi problemi, legati fra loro, sono: il declino manifatturiero, la stagnazione della produttività e la crescita delle disuguaglianze. Se Obama e Clinton pensavano di gestirli in un quadro di regole internazionali ispirate dagli Stati uniti (il tristemente celebre Washington Consensus), Trump pensa di affrontarli con un ritorno alla politica delle cannoniere. Quasi dicendo al mondo: «Noi siamo più grossi e più cattivi, quindi si fa come diciamo noi».

Da questo nasce l’ostilità agli accordi sul clima, il disinteresse per le organizzazioni multilaterali, i tentativi di far prevalere gli interessi americani in trattative bilaterali. È The Art of The Deal, l’abilità nel negoziato, trasferita dai saloni pacchiani della Trump Tower alle più austere stanze dei ministeri del Commercio a Pechino, a Tokyo o a Berlino. La furbizia al tavolo delle trattative, insieme ai tweet minacciosi, può senz’altro essere utile ma certo non risolverà problemi di fondo che risalgono agli anni Settanta.

Il declino manifatturiero degli Stati Uniti non è un problema di un mese fa né degli ultimi cinque anni: è una questione di lungo periodo che viene dal rallentamento della crescita della produttività, così come dagli incentivi delle multinazionali per produrre all’estero. Se Apple fabbrica i suoi telefonini in Cina, con margini di profitto vertiginosi, è perché può ottenere un prodotto uguale o migliore di quello che avrebbe se i suoi stabilimenti fossero in California. A un quinto del costo, naturalmente (però i salari stanno aumentando rapidamente in Cina, quindi la situazione potrebbe cambiare).

Malgrado i nuovi gadget che il mercato dell’elettronica sforna ogni settimana, la stasi della produttività è un fatto su cui quasi tutti gli economisti sono d’accordo. L’ex segretario al tesoro Larry Summers lo ha addirittura battezzato «stagnazione secolare» mentre gli scaffali delle librerie si riempiono di volumi con titoli come The Innovation Illusion o The Complacent Class. Che si dia la colpa del fenomeno agli eccessi di regolamentazione o alla perdita di spirito imprenditoriale e pionieristico non ha molta importanza: più o meno tutti gli esperti concordano che la macchina dell’economia americana nel suo complesso va piuttosto piano. In fondo non dovrebbe essere una sorpresa: un paese dove l’80% del prodotto interno lordo viene fornito dai servizi non può crescere come uno dove l’80% del Pil viene dall’agricoltura e dall’industria.

Nell’industria si possono produrre più automobili, o più computer, con meno operai. In agricoltura si possono coltivare più ettari di terreno con meno addetti, estrarre più riso, o più uva, dagli stessi campi migliorando le tecniche di lavorazione. Nei servizi un’ora di massaggio è un’ora di massaggio, gli aumenti di produttività semplicemente non ci sono. La finanza è un’attività parassitaria: quindi se ci sono più addetti alla vendita di junk bonds o più cittadini che investono in azioni l’economia reale non ne trae alcun beneficio.

Se a questi fattori strutturali si aggiunge l’esplosione della disuguaglianza dovuta al totale controllo del governo da parte degli oligarchi si capisce che i problemi dei lavoratori americani non saranno risolti né dal muro al confine col Messico, né dal fare la faccia feroce con la Cina, né dalle trivellazioni di nuovi pozzi di petrolio nell’Artico. Il capitalismo di Trump è una versione nazionalista e aggressiva di un sistema economico squilibrato e in affanno per dinamiche di lungo periodo su cui i governi hanno ben poco impatto. Certo, si possono arricchire un po’ di amici, rafforzare le banche a danno delle assicurazioni, potenziare l’industria militare a danno delle fasce più deboli della popolazione, ma nessun problema di fondo può essere risolto, o anche solo mitigato, dalla gang della Casa bianca attuale.

La domanda è: quanto tempo ci metteranno gli americani per accorgersene?