«Sono mesi molto difficili. In questo momento Israele e gli Stati Uniti non sono sulla stessa linea. Devono lavorare insieme per fermare l’Iran». L’editorialista Micah Halpern sul portale ultraconservatore statunitense Newsmax ieri lanciava un appello all’unità di intenti tra la Casa Bianca e il governo Netanyahu riguardo il programma nucleare iraniano. Che nella sostanza è una critica all’Amministrazione Biden intenzionata, contro il volere di Israele, a rilanciare l’accordo del 2015 (Jcpoa) con Tehran. Halpern si è fatto portavoce della posizione israeliana e di quella della destra americana schierata contro la trattativa indiretta in corso tra Usa e Iran che, stando al Jerusalem Post, potrebbe produrre già nella seconda metà di maggio un’intesa ad interim e portare nel 2022 al rilancio pieno del Jcpoa.

Ai vertici politici e militari israeliani prevalgono in questi giorni rabbia e sgomento. «Joe Biden va per la sua strada – ci diceva ieri Eytan Gilboa, analista dell’Università Bar Ilan (Tel Aviv), il laboratorio della destra – ed è unanime il giudizio negativo di gran parte delle forze politiche israeliane nei riguardi delle scelte del presidente americano». In Israele, ha aggiunto Gilboa, «nessuno è sorpreso. Ad occuparsi dell’Iran nell’attuale Amministrazione Usa sono gli stessi che lo facevano con Barack Obama, quando per anni fummo tenuti a distanza dal negoziato con l’Iran, senza poter far sentire la nostra voce».

Gilboa esagera. Biden in realtà è un alleato inossidabile di Israele. Ma ora l’establishment politico, militare e di intelligence dello Stato ebraico crede che gli «sforzi» fatti per complicare la trattativa con l’Iran siano stati inutili. La stampa internazionale ha riferito di attacchi contro le petroliere iraniane dirette ai porti siriani, di una mina esplosa contro una nave della Guardia rivoluzionaria iraniana nel Mar Rosso. Infine, una bomba piazzata nell’impianto nucleare di Natanz ha causato gravi danni alle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. «Se quegli attacchi sono stati progettati per deviare gli iraniani dal loro percorso e per costringerli a fare concessioni durante i negoziati sul trattato nucleare, è difficile trovare la prova che il metodo funzioni» ha scritto su Haaretz Amos Harel sottolineando che Stati uniti, Regno unito, Francia, Cina, Russia e Germania, i paesi firmatari nel Jcpoa nel 2015, proseguono senza curarsi di Israele. Washington non ha nascosto il suo disappunto per l’attacco a Natanz al quale l’Iran ha risposto subito avviando l’arricchimento dell’uranio fino al 60%. «Israele, nonostante la sua impressionante capacità operativa – ha aggiunto Harel – non sta giocando su un campo vuoto e non è in grado di determinare da solo l’andamento degli eventi».

Netanyahu spesso ricorda che, grazie all’Accordo di Abramo, ha dalla sua parte le monarchie sunnite del Golfo. Ma i suoi alleati sauditi hanno annusato che qualcosa sta cambiando nella regione dopo la sconfitta di Donald Trump e si muovono di conseguenza. Domenica il Financial Times ha riferito che per la prima volta in cinque anni ci sono stati colloqui diretti tra esponenti di spicco sauditi e iraniani, con la mediazione irachena. Non lascia tranquillo Netanyahu peraltro la proposta di legge presentata dalla congresswoman Betty McCollum per vietare a Israele di usare gli aiuti annuali Usa (3,8 miliardi di dollari) per l’occupazione militare dei Territori palestinesi. Sulla stessa linea si sono schierati due senatori democratici, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren.