Tre valigette diplomatiche inzeppate di bigliettoni, valuta estera pregiata – qualcosa come 9,6 milioni di dollari, pari a 35,5 milioni di dirham – sono al centro di un intrigo internazionale che ha per epicentro Mogadiscio. Le tre valigette sono sbarcate domenica all’aeroporto internazionale della capitale somala da un velivolo della Royal jet, compagnia di charter di lusso di Abu Dhabi, insieme a 47 funzionari emiratini. Ad attendere il volo, l’ambasciatore degli Emirati arabi uniti in Somalia. Le valigette, che a quanto pare mancavano di regolare sigillo diplomatico, sono state però intercettate e sequestrate dai doganieri.

UNA MARE DI SOLDI destinata a cosa? I funzionari emiratini hanno dichiarato che si trattava dei fondi per il pagamento degli stipendi delle forze di sicurezza somale e il ministero degli Esteri di Abu Dhabi ha accusato gli agenti di Mogadiscio di aver minacciato e aggredito il personale di bordo definendo l’episodio «un atto illegale», contrario al memorandum d’intesa e cooperazione militare tra Emirati e Somalia risalente al 2014.

Ma proprio ieri il ministro della Difesa somalo, Mohamed Mursal Sheikh Abdirahman, ha annunciato la fine del rapporto di cooperazione militare con gli Emirati. «Il governo della Somalia si assume la responsabilità delle forze armate somale», ha dichiarato ai giornalisti, non tralasciando di chiarire che gli agenti finora addestrati e stipendiati dagli Emirati saranno regolarmente pagati già oggi. Non c’è di che dubitarne. I 9,6 milioni di dollari finiti nelle casse semivuote del governo di Mogadiscio non solo sono sufficienti ma strabordanti rispetto a questo capitolo di spesa.
In uno Stato «fallito», ovvero dove tutti i servizi essenziali, dai trasporti alla sanità, dalla scuola alle poste, sono privati e pagati a caro prezzo, una tale cifra è sufficiente a finanziare un esercito privato e corrompere mezzo Parlamento, quindi a mettere in atto se non una rivoluzione, certamente un tentativo di golpe.

E già a dicembre la Commissione per il monitoraggio delle Nazioni Unite, organismo indipendente con sede a Ginevra, aveva inviato un report al Consiglio di sicurezza Onu per denunciare «il ruolo sovversivo degli Emirati arabi uniti in Somalia».

LA SCELTA DEI TEMPI per un improvviso afflusso di denaro porta a un esito intutivo: potevano servire a risolvere, questa volta in via definitiva e violenta, la crisi istituzionale che da settimane sconvolge la capitale somala e che vede contrapposti il presidente o speaker del Parlamento,Mohamed Osman Jawari – e i suoi seguaci, tra i quali figurano uomini d’affari con contatti stretti con Abu Dhabi divenuti parlamentari – da una parte e dall’altra il primo ministro Hassan Ali Khayre e chi lo ha nominato, cioè il presidente federale Mohamed Abdullahi Mohamed, più noto con il nomignolo di «Farmajo», dall’italiano «formaggio».

Ieri il braccio di ferro avrebbe dovuto arrivare a una svolta, Jawari aveva annunciato ufficialmente le sue dimissioni da seconda carica dello Stato, un ruolo di primo piano nella politica che – come ha ricordato lo stesso Farmajo, augurandosi di ritrovarlo al suo fianco nel processo di revisione costituzionale e di riforma da lui intrapreso – Jawari ricopriva da 50 anni, prima ministro del dittatore Siad Barre e poi speaker sia delle Corti islamiche che nelle varie amministrazioni di transizione. Le dimissioni però, senza una spiegazione, non sono arrivate, la seduta del Parlamento è stata annullata.


«JAWARI (nella foto) è un uomo colto, parla quattro lingue tra cui un arabo fluente, è un politico esperto, laico, un giurista, ma ha fatto un errore quando ha cercato di presiedere la seduta sulla mozione di sfiducia nei suoi confronti, una settimana fa, facendosi accompagnare da guardie armate», sostiene Shukri Said, analista italo-somala della trasmissione Africa Oggi su Radio radicale.

NEL COMPLESSO SCENARIO di fondo c’è l’accordo firmato il 1° marzo tra la società emiratina Dp World e lo «Stato» – non riconosciuto come tale da Mogadiscio- del Somaliland per creare nel porto di Berbera un hub strategico sul golfo di Aden con annessa base militare da utilizzare nella guerra in Yemen. E anche la concessione da parte di Farmajo del suo spazio aereo alla Qatar airlines dopo la chiusura di quelli saudita e emiratino. Con la sua neutralità, Farmajo, insediato nell’era Obama, non sembra prediligere gli alleati di Trump e non vuole inimicarsi gli investitori turchi e qatarioti. E più all’orizzonte, si sono i giacimenti ancora non utilizzati di petrolio somalo.