Non è la prima volta che Carlo Cecchi si misura con La dodicesima notte (ancora oggi e domani al Metastasio, poi in tournée fino a tutto maggio per questa stagione, produzione di Marche teatro dopo il debutto all’Estate Veronese l’estate scorsa). Anni fa a Siena, per la riapertura del Teatro dei Rozzi, Cecchi aveva lavorato al testo shakespeariano e insieme alla sua matrice italiana costituita dal canovaccio de Gli ingannati, variazione classica dell’eterna «commedia degli equivoci». Resta indimenticabile, di quella visione senese, l’immagine di Cecchi in paglietta e abito gessato di maschera napoletana.

Nel frattempo l’attore ha lavorato su diversi altri testi shakespeariani, e come è successo per il recente Sogno di una notte di mezza estate realizzato con allievi appena diplomati all’Accademia Silvio D’Amico, anche ora è circondato da attori tanto giovani quanto già formati e agguerriti. Una bella compagnia, energica e vitale, perfetta per rendere la favola shakespeariana dello scambio di fratelli smarriti e ritrovati, dopo un naufragio sulle coste dell’Illiria. C’è un grandissimo rigore nella lettura che Cecchi dà del racconto, che marcia sulla traduzione molto bella di Patrizia Cavalli, puntuale ma nello stesso tempo pronta a dare suggestioni contemporanee a quelle parole cinquecentesche.

Un rigore che aiuta a districarsi nella vicenda di quei fratello e sorella gemelli, separati dai marosi e disposti a ogni peripezia e travestimento per cercare di ritrovarsi. Mentre invece le loro vicende vanno a incrociarsi in terra ferma con le dispute amorose tra il duca Orsino e la bella contessa Olivia, che per motivi suoi di lutto fraterno, delle profferte di questi non vuol neanche sentire. Con una questione «politica» di ribelli e di gendarmi sullo sfondo, e una «civile» in primissimo piano, perché il travestimento in abiti maschili della sorella nàufraga, accende di passione per «lui» la principessa, mentre lo stesso duca sente per il suo nuovo «paggio» una contraddittoria e mal celata attrazione.

Ma data la naturalità dell’equivoco, si allarga dentro a questa un’altra vicenda, parallela alla principale come quella dei comici lo è nel Sogno dello stesso autore. Qui non di attori si tratta, ma dei servitori (come sarà nei romanzi inglesi dei secoli successivi) raccolti attorno a due polarità: quello dello zio buontempone della contessa, beone e disinvolto, assieme a un fasullo pretendente straniero, una servetta intraprendente (Daniela Piperno, presenza storica del teatro di Cecchi), un altro fannullone e un fool tipicamente shakespeariano, utile a dire ridendo le verità più amare. La polarità negativa si concentra invece nel maggiordomo Malvolio, contratto nei gesti ma smisurato nelle ambizioni, come quella di poter essere l’oggetto amoroso della contessa.

I due gironi sono concentrici, come la pedana rotante al centro della scena (bella invenzione di Sergio Tramonti), che tutto e tutti muove e fa girare, come fosse la ruota della vita. Ma di tutti quegli intrecci, drammatici all’apparenza ma lievi nella sostanza, è proprio il maggiordomo Malvolio a farsi deus ex machina. Beffato dalla servitù che gli recapita una finta lettera della contessa infiammata d’amore per lui, verrà deriso e sbertucciato da tutti quando si presenterà trionfante all’incontro, con le sue calze gialle e le giarrettiere a croce. E la sua vendetta, quando il lieto fine farà girare tutti felici e accoppiati come sul piatto di un carillon, verrà annunciata minacciosa e oscura. Malvolio è ovviamente interpretato da Cecchi stesso: dapprima con movenze da supermarionetta alla Gordon Craig (fino ad evocare spallucce e passettini di Totò); poi nel finale con severità tenebrosa da Convitato di pietra. Cecchi, attore come sempre straordinario, viso asciutto e penetrante, capace di dare peso e spessore ad ogni parola, anche la più lieve, dà in questo modo la «chiave» di tutto lo spettacolo: commedia leggera di intrighi e sentimenti, nel cui fondo si cela però l’abisso incolmabile della infelicità umana, quell’assenza di verità che forse non vuole neppure essere consapevole.

Si ride e ci si diverte a questa Dodicesima notte, prima di quel brivido finale. La compagnia dei giovani attori è già di alto livello, divertiti e ironici nei bei costumi di Nanà Cecchi, capaci di cantare e di sottintendere, e di fare vero controcanto alla musica, una partitura di Nicola Piovani suonata in scena dal vivo. Anche la musica è un ulteriore anello concentrico del racconto, che tiene a bada e che nello stesso tempo continuamente apre a fratture creative. Una Dodicesima notte ben racchiusa in tutti questi anelli favolosi, come fosse Saturno: e saturnino è certo lo spirito che al termine la suggella.