Chigozie Obioma, esordiente scrittore nigeriano recentemente insignito di una cattedra di letteratura e scrittura creativa all’Università del Nebraska-Lincoln, sarà domani a Roma, ospite a Libri Come (ore 16), e discuterà con Igiaba Scego del suo debutto letterario, I pescatori (edito in Italia da Bompiani, pag. 360, euro 18), in corso di pubblicazione in dodici paesi, finalista del Man Booker Prize 2015 e definito da The Wall Street Journal «un’affascinante leggenda dei nostri tempi».

Nel suo libro descrive la parabola discendente di una famiglia sullo sfondo della Nigeria degli anni Novanta del secolo scorso. Perché ha scelto di collocarlo proprio in quegli anni?

Io stesso sono rimasto sorpreso dalla complessità che il libro ha assunto una volta finito. Avevo stabilito di trattare solo alcuni temi, ma poi è diventato estremamente stratificato. Al primo livello, narra un dramma familiare. Volevo descrivere che cosa significasse crescere e doversi affidare ai propri fratelli maggiori in quanto a saggezza e conoscenza della vita. Ma poi, procedendo, ho scoperto di avere altre cose da esprimere appassionatamente. Da studente, ho vissuto nella zona Nord di Cipro, la parte turca, che non è riconosciuta come nazione. Nonostante questo, hanno buone strade, svaghi e sicurezza sociale. Sono cose che per i nigeriani non sono scontate, nonostante il fatto che la Nigeria sia una nazione indipendente da circa sessant’anni, che abbiamo risorse in abbondanza e possiamo contare sulla sesta popolazione più vasta al mondo.
La Nigeria produce gli stessi megawatt di energia elettrica che Cipro fornisce a un milione di persone, ma li fornisce a duecento milioni di abitanti. «Per quale ragione abbiamo fallito così tanto?», mi sono chiesto. Ho iniziato a pensare alla famiglia in termini di unità e di organizzazione. Supponiamo di avere un gruppo che sia unito da un filo. Potrebbe essere l’idea di antenati condivisi, di nazionalità, di famiglia. Che cosa può intervenire dall’esterno a distruggere quel legame? Nel periodo in cui scrissi, stavo leggendo un libro secondo il quale una civiltà non può essere distrutta dall’esterno ma solo dal suo interno: ci deve essere una sorta di collaborazione interna per poter distruggere un’istituzione. E così ho deciso di provare a raccontare questa storia del collasso di una famiglia ad opera di un’invasione esterna. E questo è il livello politico della trama. Vedevo la Nigeria come un’unione di tribù distinte che vivevano ciascuna separatamente, avevano i loro usi e costumi. Gli Igbo, il mio popolo, per esempio, contano circa quaranta milioni di persone, come tutte le nazioni scandinave messe insieme, sono essi stessi una nazione, ma è solo una regione della Nigeria. Avevano un loro sistema di governo e una loro religione prima del colonialismo, diversi da quelli dell’Occidente ma altrettanto validi. Poi sono arrivati gli inglesi che dissero loro che non potevano essere così, che i loro metodi erano barbarici. Come quando nel mio libro un pazzo arriva dall’esterno e impone un altro stile di vita e l’amore fraterno diventa antagonismo e odio. È qui che volevo creare un parallelo con ciò che avvenne in Nigeria. In Africa è un fatto culturale considerare pazzo tutto ciò che interviene a disgregare l’unità di una data entità.

La vicenda è narrata dal più giovane di quattro fratelli, i pescatori del titolo: quanto c’è di autobiografico nel libro?

È ingannevole leggerlo così. Da un lato potrei identificarmi principalmente con Benjamin, ma è anche molto distante da me. Condividiamo lo stesso fascino per le creature extra-umane e crediamo che tutto ciò che esiste al mondo, esiste in relazione a qualcos’altro. Ma lui non vede il mondo come me. Sono superstizioso come Ikenna, giocoso come Boja e amante della letteratura come Obembe. In ciascuno di essi abbondano le differenti qualità dei miei fratelli. Non è però un romanzo autobiografico. Non conosco un folle in grado di prevedere il futuro. Tutti i miei fratelli sono vivi e nessuno ha ucciso nessun altro. Al pari di altri scrittori, ho usato frammenti della mia esperienza per costruire personaggi e dettagli e per imbastire una storia.

In che modo le numerose metafore animali contribuiscono allo schema filosofico del libro?

Volevo essere in grado di cogliere il momento della crescita, che il narratore fosse presente nella storia e la raccontasse in maniera lineare. Questo è stato il punto di partenza e questa è anche la fine. Per quanto riguarda gli animali, volevo che Ben credesse all’idea di un universo parallelo – nel senso di una interdipendenza tra creature e altre cose viventi – e che la storia di un umano potesse essere raccontata dalla prospettiva di un albero, la storia di una donna si potesse narrare attraverso un uccello. Quando sei giovane, le cose che ti ricordi non sono lineari, non è così che la mente funziona. Le cose si possono rappresentare attraverso altre da cui sei affascinato. Per Ben sono gli animali. Rappresentare la morte di un fratello attraverso un passero rende l’impatto della morte meno tragico.

In che modo il fatto di vivere all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, ha influenzato la sua scrittura e la sua descrizione della sua patria «a distanza»?

Penso che non avrei scritto il romanzo se fossi rimasto a vivere in Nigeria. Gli Igbo dicono che il suono dei tamburi si sente meglio da lontano che non nelle immediate vicinanze. Questo proverbio avrebbe poco senso se non sapessimo a che tipo di tamburi ci riferiamo. Si tratta degli udu, fatti di argilla, che producono un suono profondo, fragoroso e quasi ipnotico. Gli Igbo credevano che potessero raggiungere il regno dei morti – almeno prima che l’uragano apocalittico della civilizzazione occidentale spazzasse via gran parte della loro cultura. Intendo dire che non avrei potuto sentire o immaginare il romanzo come lo vedo ora se fossi rimasto in Nigeria. I ricordi del luogo erano impressi nella mia memoria, ma io mi trovavo già a vivere a Cipro, la visione del mio paese di origine era più acuta e potevo sentire altre voci venire dal passato.

Nel suo romanzo, utilizza proverbi ed espressioni tipici del popolo Igbo, varie lingue e vari codici linguistici si mescolano in maniera fluida (yoruba e igbo, inglese standard e pidgin, addirittura britannico e americano). Come ha costruito il linguaggio?

Una cosa buona che abbiamo ottenuto dagli inglesi è la loro lingua. È una bellissima lingua, sintetica, malleabile. Per quanto riguarda la varietà dei codici, ho giocato con le lingue perché questo ha una grande implicazione politica. I nigeriani sono per forza di cose multilingue dalla nascita, o almeno bilingui. Io sono cresciuto a ovest, dove si parla Yoruba, ma i miei genitori parlano Igbo e nel libro la famiglia parla tre lingue. Il modo migliore di esprimere questa mescolanza era associando ciascun personaggio a una lingua primaria. Il padre, amante della cultura occidentale, parla sempre un inglese molto formale. La madre, essendo più tradizionale, si esprime in igbo. I bambini, che hanno compagni di gioco locali, parlano yoruba. Così l’inglese, nel momento in cui viene utilizzato, crea abissi tra la famiglia e gli amici. Quando i personaggi passano a questa lingua, creano intenzionalmente una distanza.

Lei è molto giovane, eppure il suo romanzo è stato comparato a una tragedia greca e l’hanno addirittura definito l’erede di Chinua Achebe, una grande responsabilità…

Sono cresciuto leggendo Achebe e considerandolo il più grande degli scrittori africani, e non mi vedo assolutamente come uno che vorrebbe «indossare le sue scarpe».il paragone convalida la mia speranza di trascrivere la consapevolezza letteraria africana, soprattutto per quanto riguarda il popolo Igbo, che è quello che hanno fatto sia Il crollo che La freccia di Dio.

Chi sono i suoi scrittori preferiti i suoi modelli letterari?

Sono stato affascinato dall’opera di Amos Tutuola, soprattutto il primo romanzo africano in inglese, I bevitori di vino di palma. Poiché la Nigeria era una colonia inglese, ho avuto un accesso relativamente facilitato ai grandi maestri britannici come Shakespeare, Milton, John Bunyan, e molti altri che ho amato. Ma tra questi il maggior diletto lo provoca Tess of the d’Urbervilles di Thomas Hardy, che persino ora continuo a considerare il capolavoro della letteratura del diciannovesimo secolo. Le maggiori affinità le trovo con gli scrittori africani: Chinua Achebe, con La freccia di Dio, Wole Soyinka, Cyprian Ekwensi, Camara Laye e D. O. Fagunwa, che ho letto nell’originale yoruba. E infine ho divorato la mitologia, il mito greco. Ho letto l’Odissea di Omero a quattordici anni in tre mesi, perché la biblioteca della mia scuola non mi permetteva di prenderlo in prestito.