Ci sono storie individuali che raccontano vicende collettive, oppure che si intrecciano – per durata e importanza – con quelle di un’intera e vasta comunità. I due volumi (uno studio e un’autobiografia) dedicati ai pianisti Thelonious Monk e Randy Weston e la raccolta integrale delle interviste rilasciate da John Coltrane viaggiano in questa dimensione. In modo analogo la celebrazione dei «maestri» connette fortemente vicenda individuale, storia degli afroamericani e politica in Black Music. I maestri del jazz di Amiri Baraka.

Robin D.G. Kelley, cinquantunenne, è docente di storia e studi americani all’University of Southern California e all’Ucla; figura chiave del «black marxism», si è occupato di classe operaria nera, del Partito comunista americano come di fenomeni socioculturali afroamericani, dal jazz alla street culture. Per pubblicare nel 2009 Thelonious Monk. The Life and Times of an American Original (edito nel 2012 da minimum fax, traduzione di Marco Bertoli, con il titolo T. Monk. Storia di un genio americano, pp. 806, euro 22) ha lavorato e ricercato per quattordici anni. «La sua vita non si può scorrere di fretta, per sommi capi, proprio come la sua musica (…) Nell’ascolto di Monk, ogni nota è importante; ogni momento elettrico. La sua musica, la sua vita, non sono passibili di campionamenti» (p. 11). Kelley in 29 capitoli e con una mole impressionante di documenti (160 pagine di riferimenti e note) smonta il cosiddetto «monklore» per «rivelare la verità che si cela dietro la leggenda». Ricostruisce la sua approfondita conoscenza della musica classica, l’educazione musicale formidabile, la costruzione dell’inconfondibile sonorità quale frutto di un intenso lavoro. «T.S. Monk era un essere umano complicato, intelligente, ora cordiale, ora generoso, ora intrattabile» (p. 10); pur soffrendo di disturbo bipolare fin dai primi anni Quaranta, il pianista visse intensamente insieme alla sua gente («ci volle un villaggio per fare Monk – San Juan Hill a New York dove crebbe, n.d.r. – (…) e una grande famiglia estesa» che lo sostenne sempre) e interagì con il suo ambiente interessandosi di tutto, dall’architettura alla politica. Lo storico mette in luce la grandezza non di un eroe solitario ma quella di un ribelle, sostenuto da una comunità, che «infranse le regole e creò un corpus e una sonorità che nessuno è mai stato capace di replicare» (p. 600). Nell’avvincente trama dello studio kelleyano si evidenziano la professionalità assoluta di Monk come le malattie aggravate da cure scadenti e «dallo stress quotidiano di chi vive di jazz e dall’incessante battaglia finanziaria e creativa con l’industria musicale» (p. 17).

Tra i più accesi promotori del suo libro, spiega Kelley nella prefazione, c’è Randy Weston, pianista e allievo di Monk. Insieme a Willard Jenkins (produttore, educatore e giornalista, collaboratore fra l’altro di Jazz Times e Down Beat) ha scritto African Rhythms. The Autobiography of Randy Weston (pp. 319, non tradotto in italiano), pubblicato nel 2010 dalla Duke University Press. Il testo viene definito «composto» da Weston e «arrangiato» da Jenkins: come nel caso del volume di Marcello Lorrai su William Parker, l’autobiografia è frutto di una lunga frequentazione e di numerose interviste. Anche in questo caso la marcata e originale personalità dell’ottantasettenne pianista – è uno dei giganti viventi del jazz – emerge in un affresco collettivo che tocca Stati Uniti e Africa, New York e Tangeri, Brooklyn e Lagos. Randy Weston è il più africanista dei jazzisti ed ha a lungo vissuto e viaggiato in quella che chiama «motherland», collaborando con musicisti quale gli gnawa marocchini e il nigeriano Bobby Benson, ma lasciamogli la parola. «Attraverso la mia musica sono davvero uno ‘storyteller’ e ho vissuto alcune straordinarie e uniche esperienze (…) Ma il tema costante della mia vita (…) è stato lottare per la gente nera, per la liberazione delle nostre menti e dei nostri spiriti; noi non abbiamo avuto il giusto rispetto per il nostro enorme contributo (…) Ho sempre lavorato per essere una parte di questa impresa collettiva (…) la musica è il mio modo di continuare la lotta di James Reese Europe, Marcus Garvey, Malcolm X, Dr. Martin Luther King, Cheikh Anta Diop (…) E ciò è quello che sto cercando di fare: scrivere e suonare musica che celebri lo spirito dei nostri antenati, musica sulla storica grandezza del nostro popolo, musica che elevi tutti: neri, marroni, beige, rossi, gialli, bianchi (…)» (pp. 1-3).

Coltrane secondo Coltrane. Tutte le interviste (a cura di Chris DeVito, Edt/Siena Jazz 2012, traduzione di Francesco Martinelli, pp. 337, 20 euro) non aggiunge molto al profilo del grande sassofonista. Disposti cronologicamente dal 1952 al ’67, realizzati in tre continenti, i colloqui tornano su alcuni aspetti: l’umiltà e la rettitudine di John Coltrane; il suo instancabile sforzo di ricerca; il rispetto per i jazzisti e gli esseri umani; la pulsione spirituale. Nei ricordi del percussionista nigeriano Babatunde Olatunji il sassofonista appare, però, lucidamente consapevole dei meccanismi di sfruttamento degli artisti neri da parte di case discografiche, agenti e manager. «ll mio scopo è di vivere una vita naturalmente religiosa, ed esprimerla nella mia musica. Se uno vive così, quando suona non ha problemi, perché la musica è solo una parte del tutto» (p. 289).

Molto più immanente la lettura delle musica afroamericana presente in Black Music. I maestri del jazz di Amiri Baraka (a cura di Marcello Lorrai, traduzione di Giancarlo Carlotti, ShaKe edizioni underground, 2012, pp. 238, euro 20). La complessità di Baraka (autore, fra l’altro, del seminale Il popolo del blues agli inizi degli anni Sessanta) nel suo rapporto con la musica e la militanza politico-culturale, trova nella raccolta antologica Black Music – con scritti posteriori alla sua fase di nazionalismo nero – un vivido compendio che giunge sino al XXI secolo. Se per Baraka «la musica rappresenta una componente essenziale, imprescindibile della sua stessa vita e un elemento costitutivo, basilare, della poesia (…) in questa galleria di protagonisti del jazz e della musica neroamericana, che dall’Ottocento del prodigo Blind Tom arriva alla fine del Novecento con l’ultimo Miles Davis» si ritrovano lo sguardo sociologico e storico insieme all’istinto e alla finezza del critico (pp. 7, 10 dell’introduzione di Lorrai). Non solo la prosa di Amiri Baraka è «interna» al linguaggio sonoro del jazz fino a raffigurarlo in parole (si leggano le pagine su Monk, Ellington, Ayler) ma la sua ricchezza di riferimenti ci aiuta a capire che stiamo parlando «di una musica che nei suoi punti più alti è stata nella sua essenza una delle forme d’arte che in maniera più prorompente nel Novecento hanno espresso l’urgenza della libertà, la critica e l’alternativa ideale allo stato di cose presente» (p. 12).