De Sanctis non scrisse mai nel corso della sua vita il libro su Dante che aveva promesso, e si era ripromesso, tante volte (anche se le lezioni e i saggi danteschi sono stati poi raccolti in volume). Ma non c’è autore a cui De Sanctis si sia dedicato come a Dante, il quale ha costituito per il critico irpino un modello, sia poetico-letterario e sia etico-politico (con evidenti risvolti anche personali, come accade quando si istituisce e si assume, con tanta convinzione, un modello).
Intorno a Dante e su Dante si costruisce il «paradigma desanctisiano», cioè il disegno rilevatissimo che rappresenta la vera ratio costruttiva della sua Storia della letteratura italiana (1870-72). In tale disegno Dante non rappresenta solo il punto più alto della nostra letteratura (a cui segue una lunga decadenza, culminata nel Seicento di Marino e avviata a una faticosa «ripresa» solo nel XVIII secolo), ma soprattutto quel nesso vivente fra poeta e popolo/nazione, che De Sanctis vede in Dante, costituisce il criterio per ogni giudizio di valore: la nostra letteratura è grande quando quel nesso è operante (e in Dante lo è al massimo grado), si avvia invece alla decadenza (alla «corruttela») quando tale nesso è infranto o rinnegato. Ciò comincia ad avvenire per De Sanctis già col Petrarca («più artista che poeta») o con il «tranquillo» Boccaccio, facendo toccare alla letteratura italiana i punti più bassi nei secoli della Controriforma, della poesia ridotta a mera musicalità, dell’aborrita Arcadia. La «linea della ripresa», preannunciata da Machiavelli (ma non da Guicciardini!) e da Galileo, e poi da Parini e Alfieri, si manifesta finalmente con Leopardi e Manzoni, ricollegandosi (non certo per caso) al Risorgimento nazionale.

Non è questa la sede per discutere la fondatezza di tale paradigma desanctisiano (sottoposto a critiche da più parti), più interessante notare che l’assunzione della centralità esemplare di Dante è meno ovvia di quanto oggi possa sembrare. È infatti esistito (a smentita di chi considera il valore della poesia perenne, assoluto e astorico) un lungo misconoscimento critico di Dante, che durò alcuni secoli e culminò nella condanna radicale di Saverio Bettinelli (1718-1808), un gesuita illuminista (fu anche in contatto con Voltaire), il quale aveva ben due motivi per rifiutare Dante: il sospetto per l’eresia del Fiorentino e il disdegno per l’ineleganza medievale della Commedia.

Con la temperie romantica (e con Foscolo) le cose cambiano, e De Sanctis accompagna con la sua costante attività critica e didattica quella che per lui sarà «l’età di Dante». Comincia a dedicarsi a Dante già dal 1838-41 alla scuola di Puoti; dopo il ’48 e i trentatré mesi di carcere a Castel dell’Ovo, De Sanctis esule a Torino camperà di apprezzatissime conferenze e di corsi danteschi dal ’53 al ’55; i corsi al Politecnico di Zurigo, dal gennaio ’56, sono soprattutto su Dante; tornato in Italia, gli anni Sessanta intrecciano l’attività politica con la pubblicazione dei grandi saggi su Farinata, Francesca, Pier delle Vigne, etc. e sulla critica dantesca altrui; della centralità di Dante nella sua grande Storia si è detto.
Nel maggio 1865, in occasione delle celebrazioni del sesto centenario dantesco, così sovrabbondante di monumenti e di retorica, De Sanctis scrive alla moglie Marietta: «Sento cantar per le vie: spille di Dante a quattro soldi! Ne ho presa una, come curiosità e memoria. Hanno reso ridicolo Dante. Vendono perfino i confetti di Dante!».

Ben più duratura delle spille e dei confetti di quel sesto centenario sarà l’«eredità diffusa» che il Dante di De Sanctis seppe determinare. Nel 1912, all’Università di Torino, il professor Umberto Cosmo (una limpida figura di antifascista e pacifista cristiano, desanctisiano d’elezione), supplente di Arturo Graf, svolse il suo corso sul Dante di De Sanctis. Ad ascoltarlo in aula c’era uno studente sardo, Antonio Gramsci. E a Cosmo Gramsci si rivolgerà dal carcere per avere un parere in merito al suo progettato saggio sul Canto X dell’Inferno, un lavoro in cui è evidente la lezione desanctisiana, come peraltro sarà desanctisiano l’intero impianto critico-letterario di Gramsci a partire dal nesso (desanctisianamente dantesco) fra letteratura e popolo/nazione.
Ma questo è un altro capitolo della nostra storia.

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