C’era una volta Twister, il bel catastrofico di Jan De Bont che ebbe l’ottima idea di accentuare il carattere hawksiano della commedia sentimentale fra i due protagonisti, in modo tale da insinuare sullo sfondo che le violentissime trombe d’aria fossero in realtà segno di altro, per esempio traccia di una dialettica matrimoniale in atto. Into the Storm, remake inconfessato di Twister, tenta invece la carta del pov (ossia point of view), innestandola nel filone del teen-movie come se il regista volesse evocare per il suo film il pubblico dei reality.
Steven Quale, formatosi sui set cameroniani di Titanic e Avatar, passando anche per quello di Final Destination 5, adotta senza alcuna forma di distanziazione o ironia il modulo televisivo per introdurre personaggi e situazioni. Ci si rivolge direttamente in macchina sciorinando terrificanti banalità sulle aspettative di futuro e – come potrebbe essere altrimenti? – i sentimenti, la vita e quant’altro. Tutto il film di Quale sembra essere stato predigerito dalla televisione per essere diretto a un ideale spettatore televisivov. Il cacciatore di uragani, infatti, sembra provenire direttamente dai set o dalle location di un canale tematico, mentre il parco di giovani che fa da cornice generica al film non sfigurebbe nelle sitcom. Come ridotto alle dimensioni di un immaginario televisivo, interrotto regolarmente da break pubblicitari, il film si produce in una serie pressocché insostenibile di uoghi comuni e di atroci dialoghi resi con lignea piattezza.
Anche gli effetti speciali, peraltro non particolarmente inventivi se si eccettua parzialmente la devastazione dell’aereoporto, sembrano realizzati in economia, come se Into the Storm fosse la prova generale per un blockbuster ancora da fare piuttosto che un’opera a se stante (o il riciclaggio di materiale di scarto di altri film).
Laddove il tradizionale film catastrofico è sostanzialmente una riscrittura del patto sociale, questo si limita a riaffermare l’esistente confermandone i valori. Fantasmizzazione di una tensione bellica latente, Into the Storm opera una feticizzazione della distruzione di massa tesa a riaffermare i valori di una comunità nazionale (la bandiera a stelle e strisce che sventola intatta sulle rovine). Come se la distruzione, lo spettacolo della distruzione, fosse il banco di prova sul quale mettere in scena ciò che rimane dei segni di un’identità avvertita evidentemente sempre più a rischio d’estinzione.
Per questo Into the Storm non possiede un briciolo di hybris né tantomeno il gusto della serie B di una volta; piuttosto adotta e riafferma i modelli dominanti del cinema hollywoodiano svuotandoli delle loro potenzialità celibi e politiche. La comunità che ritrova se stessa nel combattere la natura, secondo lo schema classico del disaster movie, si offre come estensione del mito della conquista delle frontiere. Giunti alla fine del consumo delle frontiere, non resta altro che la lotta vana con la natura stessa nel tentativo di carpirle l’ultima immagine possibile.
Steven Quale, ovviamente, non possiede né il lirismo macchinico di Michael Bay né tantomeno il timore e tremore panico di James Cameron, e riduce la sua esperienza del mondo e della catastrofe alle dimensioni dello schermo televisivo privando così il disaster-movie persino della sua superficiale componente pedagogica. In soli 89 minuti, Into the Storm umilia un intero genere annoiando a morte lo spettatore atterrito non dagli uragani ma da una rara e sconfortante, oltre che spudorata, esibizione di mancanza di intelligenza e di gusto.